Compagine tutta al femminile queste Meldrum, trio di fanciulle dedito a sonorità di stampo alternative e prettamente moderne.
Provenienti dalle fredde terre scandinave, Moa Holmsten e socie tentano di percorrere strade un po’ lontane da quelle che sono le sonorità tipiche della Frontiers, rinunciando ad una buona dose di ortodossia musicale a favore di spunti e divagazioni più moderne. Il risultato, se da un punto di vista prettamente esecutivo può considerarsi riuscito, delude però sotto il profilo della qualità intrinseca delle composizioni. Un songwriting banale e piuttosto scontato, difatti, attestano a questo secondo lavoro di casa Meldrum un ruolo decisamente trascurabile all’interno della scena internazionale. Album come “Blowin’ Up The Machine”, infatti, non aggiungono assolutamente nulla alla già nutrita schiera di lavori contemporanei, in una riproposizione stanca e piuttosto noiosa di quanto già fatto, da altri, in passato. Non convince, poi, la prestazione della stessa Holmsten la quale, in un contesto comunque pesante come questo, non riesce a dare un contributo significativo alla causa della band.
Che siano in molti, comunque, a puntare sulle Meldrum è un dato di fatto. La stessa Frontiers, muovendosi in un campo a lei non familiare, dimostra di credere fortemente nel trio scandinavo. Ospiti di lusso come il geniale ed immenso (in tutti i sensi) Gene Hoglan alla batteria e Lemmy (Motorhead) alle backing vocals, poi, sono un motivo d’attrazione niente male per il metal kids, sebbene l’apporto dei due famosi musicisti non riesca a sollevare minimamente le sorti di un album destinato ad essere dimenticato in fretta. Deludono, dunque, le Meldrum e questa loro seconda fatica discografica.