Intervista senza troppi fronzoli, quella raccolta in occasione della data genovese dei Vision Divine (di cui potete leggere anche il report) con il chitarrista Olaf Thorsen. Anzitutto niente dischi in imminente uscita o appena pubblicati e poi un senso di libertà che traspare proprio dalle parole del musicista toscano, il quale ormai porta avanti la carriera delle sue band rispettivamente da un ventennio (Labyrinth) e da 13 anni (Vision Divine) con mutamenti e cambiamenti di pelle che rappresentano una notevole evoluzione.
Bastano comunque pochi spunti di riflessione per far emergere nel chitarrista un grande attaccamento nei confronti del suo lavoro e delle sue band, tanto che è difficile fermare il fiume in piena delle sue parole. Lasciamo quindi spazio a ciò che Olaf ha dichiarato ai microfoni di H-M.it!

Visto che “9 Degrees West Of The Moon” è uscito da un po’, ti va di stilare un piccolo bilancio su com’è stato accolto quest’album?
Si è trattato di un disco inizialmente partito molto a rallentatore da un punto di vista di apprezzamento della critica, soprattutto in Italia. Tutto questo si è venuto a creare per un discorso che, invece, ai fini del mercato, si è rivelato molto interessante, cioè la solita questione se sia meglio il cantante che c’era prima o quello che è arrivato dopo. La cosa, da un punto di vista critico, ha creato in Italia le solite fazioni modello “Guelfi e Ghibellini” (termini usati per indicare, tra il XII ed il XIV secolo, due schieramenti politici opposti nel nord del nostro Paese, i quali sostenevano nella lotta per le investiture rispettivamente il papato e l’impero nello scontro che si venne a creare tra i due, nda), quindi per alcuni è meglio il vecchio perché è imprescindibilmente legato al successo dei Vision Divine, mentre per altri è meglio il nuovo perché è l’arringatore di folle, il personaggio già noto e così via.
Questo ci ha dato a livello di vendite un bell’aiuto perché, come si dice solitamente, la prima regola è che, anche se male, basta che se ne parli. Precisando comunque che le vendite non sono tutto e che, come ormai sanno tutti, il mercato è in crisi, quello che ci interessava era mantenere un certo livello di qualità e di credibilità perché, quando il tifo da stadio si è placato, è rimasto un disco in cui crediamo molto ed una band che ha suonato tantissimo in giro per il mondo.
A proposito proprio del disco, c’è da dire che è un lavoro per forza di cose molto diverso dai suoi predecessori, molto intimista (non è una parolaccia tirata a caso, sia chiaro) e chiunque abbia avuto l’occasione di leggere i testi anziché tirar giù gli mp3 da emule avrà visto che si tratta di un lavoro molto particolare a livello tematico, così come la musica che ha correlato i testi è volutamente cupa, ed era impossibile che fosse uguale ai dischi precedenti.
Personalmente, la prima cosa che faccio quando scrivo un album è la creazione di un concept, che poi occupi una sola canzone o un disco intero, quello che conta è l’idea di quello che andrò a scrivere. Questo influenza fortemente la musica che poi andrò a comporre ed il mio modo di lavorare funziona così, non sono il tipo che prima compone 10 pezzi strumentali per poi aggiungerci successivamente i testi.
Concludendo il discorso, quello che ci ha fatto piacere è che, indipendentemente dal fatto che sia o meno piaciuto, è stato riconosciuto che questo è un disco molto maturo dal punto di vista stilistico. Poi per carità, non è un problema se qualcuno mi dice che preferisce il pezzo in doppia cassa tipo “La Vita Fugge” (da “Stream Of Consciousness”, nda), si tratta sempre di musica che ho composto io e che fa parte del mio bagaglio d’esperienza.

Parlando invece un attimo dell’aspetto formale legato all’ultimo disco, come mai siete passati da Scarlet a Frontiers?
Il fatto del cambio di etichetta è una domanda che ci è stata fatta da moltissime persone e che, in realtà, non racchiude nessun dettaglio nascosto o nessun disaccordo con l’etichetta precedente, ma che fa parte soltanto del naturale processo di una band che va avanti continuando a fare dischi. Ad un certo punto della propria carriera, poi, succede che questa band si trovi in scadenza di contratto e riceva un’offerta che è semplicemente migliore rispetto a quello che la vecchia label si potrebbe anche solo permettere di fare. Per fortuna a noi è capitato così e gli stessi gestori di Scarlet, con i quali siamo sempre stati legati da un legame di amicizia, ci hanno spinto a fare questo “salto”. Non è niente di più e niente di meno di ciò, non ci sono dietro cose alchemiche.
A quel punto siamo stati molto contenti di accettare l’offerta della Frontiers perché comunque è un’etichetta che rispettiamo e che sta lavorando moltissimo. Non ultimo ha dei nomi esagerati nel suo roster (ricordiamo ad esempio Whitesnake e Mr. Big, nda) e non ti nascondo che c’è anche un buon livello di soddisfazione personale nel sentirsi cercati e corteggiati da un’etichetta del genere.
Aggiungo anche la parentesi del fatto che la nostra precedente etichetta ha nel frattempo messo sotto contratto la band del nostro ex-cantante (i Killing Touch di Michele Luppi, nda), per cui il non creare anche situazioni poco chiare a livello pubblicitario, va detto che questo fattore ha aiutato a prendere la decisione.

Che cosa ne pensi, invece, del fatto che Fabio sia stato chiamato per sostituire Roy Khan nel prossimo tour dei Kamelot?
È la dimostrazione di quello che ho sempre sostenuto: cioè che in Italia abbiamo almeno due o tre cantanti di livello assolutamente mondiale. Personalmente credo di essere uno dei più fortunati chitarristi italiani perché ho lavorato con quelli che ritengo essere i cantanti più bravi che abbiamo nel nostro Paese. Lo stesso Morby (Sabotage, Domine, nda), che ricordo sempre con piacere, è, vuoi per questioni anche anagrafiche, il vero capostipite dei cantanti metal italiani. Questo è un fatto che mi trovai a ribadire anche in occasione dell’annuncio del nuovo cantante dei Vision Divine, che era Fabio, quando partecipai ad una chat su un sito ed ebbi modo di discutere con un chitarrista italiano abbastanza famoso il quale sosteneva che in Italia non ci sono cantanti di valore. Chi ha avuto modo di esserci si ricorderà anche chi era e non lo voglio nominare in questa sede, ma all’epoca mi inalberai abbastanza riguardo a questa cosa perché ritengo che nel nostro Paese ci sono quei 2/3 cantanti di assoluto valore.
Il fatto che i Kamelot, che si possono permettere chiunque, abbiano chiamato proprio Fabio è un motivo di orgoglio proprio perché sono italiano. Poi Fabio è anche un amico, oltre che una persona con cui ho praticamente iniziato a suonare quasi vent’anni fa, e quindi vederlo arrivare ai Kamelot è una soddisfazione che dovrebbe far contenti tutti gli italiani. Credo che chiunque si permetta di fare polemica come al solito, mai come ora si dovrebbe vergognare. Questo potrebbe essere anche un ottimo punto di partenza per porre una volta per tutte la parola fine al “ghetto” del metal italiano.

Soffermiamoci un secondo su di te come chitarrista: hai da poco un nuovo endorsment, se non vado errato…
Non sbagli ed infatti ho delle novità in merito: da quest’anno sono endorser ufficiale di Ibanez per le chitarre ed Engl per gli amplificatori, nonché Ernie Ball per le corde. La cosa mi ha fatto chiaramente molto piacere quando mi è stata proposta e, nonostante io non sia un tipo particolarmente fissato con gli endorsment, il fatto che dei marchi così grandi ed universalmente riconosciuti mi abbiano proposto un contratto internazionale mi gratifica non poco. Vuol dire che anch’io, nel mio piccolo, sto raccogliendo qualcosa di quello che ho seminato.

D’altra parte, però, mi chiedo come mai i Vision Divine, essendo comunque una band che ha ricevuto notevoli riscontri anche a livello internazionale, non suoni in location adatte alla propria caratura come, ad esempio, qualche grosso festival o cose del genere.
Questo in realtà fa parte del DNA della band: abbiamo sempre suonato ovunque e dovunque. L’attitudine dei Vision Divine è meno d’èlite rispetto alle band come possono essere state Labyrinth o Rhapsody che magari vengono accostate di più a grandi palchi. Non che i Vision Divine non abbiano mai suonato in occasioni del genere, perché anche noi abbiamo potuto portare la nostra musica in contesti più grossi come il ProgPower negli Stati Uniti ed in assoluto mi ricordo l’Heineken Jammin’ Festival con 44 mila persone.
Quindi abbiamo avuto ed abbiamo anche noi le nostre belle soddisfazioni, come ad esempio il tour in Sud America che stiamo preparando in questi giorni e programmato per fine anno. Ci piace tornare spesso da quelle parti perché forse, insieme ai Rhapsody, siamo la band italiana più amata. Però siamo una band che, rispetto alle altre, non aspetta solo il tour d’èlite, ma che suona tutto l’anno ed è una scelta precisa che abbiamo sempre fatto. Abbiamo forse un contatto più umano con il pubblico, non da rockstar, insomma e tra le tre “sorelle” (si riferisce a Rhapsody, Vision Divine e Labyrinth, nda) credo di poter dire che siamo quella più comune come modo di agire.

Visto che hai introdotto l’argomento, mi hai fatto tornare in mente un discorso che feci tempo fa con degli amici, cioè che non ci sono più rockstar intese come l’Axl Rose della situazione. Pensi che sia un bene o un male?
Anzitutto diventa difficile essere una rockstar una volta che il mercato ti dimostra che non lo sei più. Per chi è stato una rockstar fino all’anno scorso magari diventa complicato accettare questa nuova dimensione, mentre nel nostro caso questo è sempre stato il nostro presente e forse siamo avvantaggiati da questo punto di vista.
Sul fatto che sia un bene o un male, scelgo la seconda ipotesi perché secondo me il metal vive di miti: il cantante che fa l’acuto, il chitarrista esibizionista, il batterista che demolisce tutto ed il bassista un po’ in disparte. Ci sono delle icone che fanno parte di questo genere e se andassero a sparire definitivamente, credo che sparirebbe un po’ lo spirito stesso del metal.
Poi una volta c’erano delle vere e proprie “regole” di comportamento per cui noi stessi come Labyrinth, nei nostri primi tour, venivamo educati per esempio a non dare troppa confidenza al pubblico perché più il pubblico ti conosce e meno hai la possibilità di essere visto come una cosa inarrivabile. Questo concetto viene dagli anni ’80 e valeva per chi non vive a Los Angeles perché, e non bisogna dimenticarlo, tutte queste rockstar giravano tranquillamente nei pub di L.A. e sul famoso Sunset Boulevard, quindi anche lì c’era molto mito e poca realtà.

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