Asserzioni entusiastiche, paragoni di una pesantezza pachidermica che spaziano da H.I.M. ad Iron Maiden e acclamazione della stampa con tanto di lusinghieri complimenti. E’ così che sono presentati gli svedesi Seven Circles al malcapitato pubblico italiano che, una volta consumato a fatica il primo ascolto di questo debutto omonimo, verrà colto dal forte dubbio di essere stato vittima di un errore o di uno scambio di band. Purtroppo per i tre ragazzi scandinavi e per chiunque capiti sulla loro strada, infatti, la realtà che emerge dai quattro brani contenuti all’interno del prodotto in esame è in disarmante ed imbarazzante antitesi con quanto offerto come biglietto da visita. La proposta del giovane trio è una miscela molto atmosferica che non poco ruba ai My Dying Bride più puliti e al goth rock plastificato tanto in voga negli ultimi anni. Pur volendo imbattersi in un’improbabile, ma volenteroso, scandaglio dei pregi, sia compositivi che qualitativi, del dischetto in questione ogni tentativo restituirà sul taccuino sempre, inesorabilmente, un misero zero. Artwork deplorevole, produzione da sottoscala ed equilibri scomposti sono caratteristiche spesso ritrovabili in esordi discografici autoprodotti, pertanto perdonabili, ma che, nel caso in oggetto, risultano soltanto trascurabili gocce in un mare di mediocrità dalle mille facce. I brani, tanta è l’assenza di mordente e di feeling, risultano abrasivi per la pazienza di chi gli si accosta; la voce del leader Andreas Lantz è legnosa, moscia e perfetta identificatrice e finalizzatrice della disfatta corale di ogni elemento del disco. Un episodio come questo non lascia scampo ad alcun tipo di interpretazione se non quella di una consegna, all’ignaro pubblico italiano, di un inutile, scontato e (troppo) coraggioso saggio di totale assenza di autocritica.

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