Attorno ai Tool è facilmente avvertibile un’aura quasi magica che conferisce loro una sorta di immunità a qualsiasi tipo di critica. Il perché di ciò è difficilmente comprensibile: forse un mefitico carisma oscuro o un significato sfuggente porta chi si confronta con la loro musica a renderla un’esperienza del tutto privata e impossibile da svelare a chi non abbia intenzione di immergervisi con corpo e anima. Nonostante l’indubbia complessità della loro arte, i Tool hanno conseguito un successo internazionale stupefacente: sette milioni di copie vendute con all’attivo tre soli album e un ep in oltre dieci anni di carriera. Segno che non solo Limp Bizkit o Kid Rock sono il futuro della musica heavy.
I Tool nascono nell’aprile del 1991 a Los Angeles; tutti i membri arrivano da diverse zone degli Stati Uniti. Maynard James Keenan (voce) presta servizio militare all’Accademia di West Point e si iscrive alla scuola Kendall di Art & Design del Michigan. Su di lui si sa poco altro: ha un figlio, Devo, ha uno stile comunicativo molto astratto e si vocifera sia andato a vivere a L.A. per poter trarre ispirazione dalle architetture dei Templi Sacri e per avere la possibilità di “rigenerarsi”.
Adam Jones (chitarra) è la personalità più controversa del gruppo: creativo fino all’esasperazione, è un esperto di stop-motion ed effetti speciali (nel suo curriculum pellicole come Nightmare 5 e Terminator 2 ). L’atmosfera eterea e immobile del mood tooliano deriva in gran parte dalla marzialità dettata dai riff delle sue chitarre, che egli stesso assembla.
Danny Carey (batteria) è uno degli autentici virtuosi del rock moderno. Esperto di riti massonici, di occultismo, di geometria, applica all’elettronica i suoi studi sul jazz fino a ricavare una deriva del tutto sorprendente sulla poliritmia e sul tribalismo.
Justin Chancellor, attuale bassista, subentrato a Paul d’Amour (ora nei Replicants assieme a Ken e Greg Edwards) poco prima dell’uscita di Aenima, ha creato, assieme ai Peach (che fecero spalla ai Tool durante alcune date inglesi), un piccolo gioiello misterioso: “Giving Birth To A Stone”, disco che si muove tra doom e alternative, ormai pressoché introvabile.
I Tool sono formati da quattro eruditi studenti d’arte (nulla a che vedere con gli esponenti della working-class britannica che rispondevano, nei ’70, al monicker Black Sabbath) che si sono conosciuti grazie a Tom Morello, allora appena laureatosi ad Harvard e non ancora leader spirituale dei Rage Against The Machine.
Dopo aver firmato un Contratto con la Zoo/Volcano ed aver richiesto e ottenuto il totale controllo sulla propria arte, iniziano la loro avventura all’interno del music-biz. Primo capitolo della loro discografia è il mini cd “Opiate” (1991), un interessante crossover tra grunge, hardcore e speed-metal. La tesa atmosfera da analisi psicanalitica è figlia delle auto-flagellazioni dei Soundgarden e degli Alice in Chains, ma la struttura dei brani è già qualcosa di contraddittorio: edonismo sfrenato e contenuto esistenzialista. Le ritmiche intricate di Danny Carey ricordano i Voivod e “Red” dei King Crimson, il basso di Paul d’Amour è pulsante e libero, la chitarra di Adam Jones è una versione asettica dei riff trigonometrici del thrash bay-area più tecnico. Keenan ha una voce ancora acerba, ma il suo timbro è già riconoscibilissimo: nasale, evocativo, enfatico. I pezzi sono piuttosto diretti e violenti (“Hush” su tutti, una sarcastica e abrasiva denuncia alla censura) ma ci sono momenti di stasi (almeno apparente) che testimoniano una decisa volontà nello staccarsi da un certo tipo di heavy – metal (“Opiate”, ad esempio, col suo climax quasi dark-wave, o la ghost-track, una poesia obliqua recitata da un Keenan stralunato con in sottofondo una danza tribale degna dei Grateful Dead). “Opiate” è in definitiva un esordio convincente, ma troppo legato a canoni hardcore e grunge per non perdersi nel marasma degli umori depressi dell’epoca.
Una serie di grandi concerti ha conferito ai Tool la nomea di cult-band: la partecipazione al Lallapalooza di Perry Farrel è un ulteriore passo verso la salita nell’empireo delle band “alternative”. Il vero successo arriva col primo full-lenght, “Undertow”. Lo stile dei quattro di LA è più raffinato, per quanto ancora pervaso da una violenza psicologica e fisica dalle proporzioni immani. L’atmosfera è più compatta, tesa, lo spirito hardcore sopravvive nella marziale “Bottom”, a cui partecipa Henry Rollins. Il tutto è però coperto da una pellicola di inquietudine che non appartiene al mondo materiale: “Swamp Song” sembra una jam session tra i Rush e una congrega di sciamani; “Intolerance” è quasi disturbante, è un liberarsi dei propri demoni e osservarli con autocompiacimento; la conclusiva “Disgustipated” è una lenta discesa nell’inferno: 15 minuti di deviazioni industriali e grida destabilizzanti. I pezzi che garantiscono ai Tool la riconoscibilità planetaria sono però i due singoli “Prison Sex” e soprattutto “Sober”, entrambi accompagnati da video-clip ideati da Adam Jones. I brani, di per sé, pur energici e ispirati, sono forse i meno interessanti dell’album; sono le immagini assemblate dal chitarrista a destare sgomento: creature terrificanti che si muovono epilettiche in labirinti che evocano il degrado e la decadenza delle metropoli. Il video di “Sober” viene nominato agli MTV music awards nella categoria “Migliori Effetti Speciali”.
Richiestissimi dal vivo, ormai rispettati nei circuiti del mainstream più “colto”, i Tool fanno il passo verso la definitiva consacrazione nel 1996, quando la Volcano mette sul mercato “Aenima”, uno dei dischi più importanti degli anni ’90. Questa è la loro opera più criptica e angosciante.
Keenan è ancora migliorato dal punto di vista dell’interpretazione e della duttilità, Adam Jones ha affinato uno stile riconoscibilissimo (pare un incrocio tra Gilmour e Iommi), Justin Chancellor (in pianta stabile nella band d’ora in poi) e Danny Carey creano una sezione ritmica devastante. I concerti dei Tool diventano leggendari: se i tre strumentisti stanno in disparte a riprodurre con precisione chirurgica (con freddezza, asserirà qualcuno) le loro partiture, Maynard si rivela un intrattenitore tra i più eccentrici del pianeta. I suoi travestimenti sconcertanti fanno quasi paura, le sue movenze da narcolessi quasi riproducono i personaggi dei clip visionari di Adam Jones. “Aenima” è uno spartiacque, i Tool si distaccano completamente da qualsiasi genere e pur conservando uno spirito grunge (“Stinkfist”, “Jimmy”) si avvicinano sempre più ad entità da implosione catartica. “Pushit” e “Third Eye” sono lunghe suite degne dei King Crimson di “20th Century Schizoid Man” ma contengono un nucleo oscuro ed espressivo all’inverosimile. “Hooker With A Penis” è micidiale speed metal, a ricordare che Keenan e soci rimangono una band dall’attitudine molto fisica. “Aenema” è un furioso inveire all’apocalisse.
A spezzare la tensione tra un brano e l’altro ci sono brevi interludi strumentali che rendono meno truce l’esperienza dell’ascolto: il messaggio in segreteria (“Message To Harry Manback”) lascia perplessi, “Die Eier Von Satan” (trad. “Le Palle Di Satana”) è una declamazione degna di Hitler con la differenza che si illustra una ricetta per cucinare le uova. I Tool evidenziano sarcasmo e ironia e non parlano solo di violenza o sesso estremo. “Aenima” vende qualcosa come 2 milioni e mezzo di copie, anche senza il supporto dell’etichetta. La promozione principale continuano a farla i video di Adam Jones (il delirante clip di “Stinkfist” fa il giro del mondo) e la band non riceve le giuste attenzioni dalla propria casa discografica, alla quale intenta una causa che si protrarrà per anni.
Brusco stop per i Tool, a questo punto, che spariscono dalla circolazione per più di quattro anni: molti li danno per dispersi in modo definitivo.
Bisogna aspettare il 2000 per ricevere segnali di rigenerazione: Maynard James Keenan partecipa al progetto A Perfect Cicrle di Billy Howerdel, un’interessante rivisitazione in chiave metafisica degli anni d’oro del rock decadente di Seattle. Pochi mesi dopo esce il transitorio semi-live Salival, cd+vhs con tutti i video della band, che contiene comunque momenti di estasi emozionale (la cover di “No Quarter” dei Led Zeppelin e una versione di “Pushit” da brividi, con inserti di percussioni ed improvvisazioni degne dei Velvet Underground).
Nel 2001 i Tool tornano definitivamente alla ribalta con “Lateralus”, ad oggi il loro maggior successo a livello commerciale e di critica. La band si è creata un universo suggestivo fatto sì di musica, ma anche di simbolismi a livello poetico e visuale. Il disco è molto pretenzioso, elaborato, dalle strutture sorprendenti. Tutti i pezzi sono opere prog dalla durata media di 7/8 minuti, con apici di espressività inarrivabile (il dittico “Parabol”-“Parabola”, “Lateralis”, “Triad”).
I Nostri, adesso, possono essere descritti come un ideale punto d’incontro tra l’oscurità dei Black Sabbath, la perizia tecnica dei Rush e le ambizioni emotivo/psicanalitiche dei Pink Floyd. L’impatto lacerante di “Aenima” è sorpassato, al suo posto si intraprende un faticante e ipnotico viaggio attraverso i demoni e le emozioni dell’essere umano. Dal vivo c’è meno fisicità, più professionalità, ma il magnetismo e il carisma di Keenan sono inalterati; i loro concerti ora giocano molto sull’effetto visivo dei megaschermi che riproducono immagini astratte e stranianti.
Per loro aprono acts quotatissimi, dai Meshuggah ai King Crimson. I Tool ormai sono un realtà del rock.
Assieme ai Nirvana, ai Korn e ai Nine Inch Nails, i Tool sono stati il gruppo (almeno nell’overground) più importante e innovativo degli anni novanta e la loro ispirazione ancora vivissima crea molte aspettative anche per il nuovo millennio. In Italia Maynard e soci restano poco più di un gruppo di culto (e forse è giusto così) ma il fascino che esercitano continua a fare proseliti. Noi restiamo con le dita incrociate ad aspettare che i quattro di LA ci forniscano arte sulla quale, quanto meno, vale ancora la pena di discutere.