A dispetto dell’immarcescibile integralismo con il quale i fieri esponenti della “fede metallica” continuano a negarlo, Marilyn Manson appartiene tanto al mondo del rock quanto a quello dell’heavy-metal. Basti come prova inconfutabile il disordine che la sua presenza ha indotto al Gods of Metal, tanto che si è dovuto prima ribattezzare l’evento, poi spostarne il luogo dello svolgimento. Poco importa che le motivazioni siano di ordine sociale o logistico, meglio credere ad un arcano influsso nascente da zone lugubri del mondo e fuori dal mondo.
Manson attrae, spaventa, disgusta. Troppo heavy per piacere a chi si nutre di MTV, troppo poco heavy per gli adoratori del pesante in senso stretto (del resto i Morbid Angel in evidenza su un qualsiasi canale mediatico sono un’utopia). Manson stimola chi sta “nel mezzo”, “sul bordo”. A Day At The Border, appunto. Quale siano la sua proposta musicale e il riscontro commerciale a questo punto non è d’obbligo saperlo, eppure dovrebbero essere le cose fondamentali (la prima, almeno).
La misura della notorietà del Reverendo forse non è chiara a tutti: Manson è l’unica rock star sulla faccia della terra. Dopo il suicidio Cobain e l’isteria di Axl Rose, ci resta solo lui, piaccia o meno. Sia l’immagine fetish-asessuata o qualche poco noto merito artistico non è compito di nessuno stabilirlo.
E la sua musica? La musica, sì, una rock star dovrebbe avere qualcosa a che fare con la musica. Non che Marilyn abbia inventato qualcosa, sia chiaro: un goth-industrial macchiato di narcisismo e metal estremo. La parte più lasciva dei Nine Inch Nails affiancata ad un immaginario surreale e cotonato vicino tanto ai Kiss quanto a David Bowie.
“The Golden Age Of Grotesque”, al di là di facili sensazionalismi, è probabilmente il punto più basso della carriera del Reverendo. Discontinuo, claudicante, disomogeneo, sfiancante. Un minutaggio eccessivo che male si sposa con la continua ricerca di canzoni che sappiano spaventare e coinvolgere allo stesso tempo. Il gioco funziona fino a “Slutgarden”, poi la situazione si fa fin troppo calma e prevedibile, tanto che la proto elettronica di “Para Noir” o le dissonanze di “Vodevil” potrebbero benissimo far parte del repertorio dei Garbage. Autentiche perle di strisciante crossover tra glam e Ministry quali “This Is The New S**t” o “Doll-Dagga Buzz-Buzz Ziggety-Zag” non bastano a rendere interessante un lavoro fin troppo di maniera per un artista del calibro di Manson.
E sì, Manson è un artista. Che sia intrattenimento o catarsi è a discrezione dell’ascoltatore, ma un disco come “Antichrist Superstar” non capita di ascoltarlo tutti i giorni: per chi non conoscesse il Reverendo, il mio consiglio spassionato è di liberarsi dalle paranoie (o dalle paure…) e procurarselo immediatamente. Il resto verrà dopo.
Chi sta “nel mezzo” probabilmente conoscerà già a memoria “The Golden Age Of Grotesque”. Forse, come il sottoscritto, ne sarà rimasto un po’ deluso, ma ad un Artista, un passo falso, lo si può tranquillamente perdonare.

Vincenzo “Third Eye” Vaccarella

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