Quinto lavoro in studio per questa creatura bicefala, proveniente dall’Inghilterra. Spiego l’aggettivo: i due quarti della formazione (basso e tastiere) sono membri effettivi, prima ancora che dei Jadis, dei più noti new progsters inglesi IQ. E benché la vera mastermind del gruppo sia il chitarrista e cantante Gary Chandler, non è dato registrare, anche nel presente disco, un sensibile scostamento dal sound dei succitati IQ.
Nati verso la fine degli anni ’80, supportano fin da subito le band più in vista della scena, Marillion su tutti. Ed è frutto di un sodalizio con il chitarrista di questi ultimi, Steve Rothery, che nascono (era il 1989) le loro prime registrazioni: Steve vi è impegnato in veste di produttore (esattamente come fece qualche anno dopo per il disco d’esordio degli americani Enchant, i quali vireranno negli anni successivi, come noto, verso sonorità più hard). Non desterà perciò meraviglia il fatto che una pesante aura marillioniana permei di sé, fin dalle origini, l’impianto sonoro dei Jadis, che si dimostrano perdutamente innamorati di chitarre liquide e tastiere fluttuanti, a funger da tappeto a melodie rilassate, distese, quasi corali, intervallate senza frenesia da moderate asperità ritmiche.
Chi conosca, anche solo a spanne, i lavori della premiata ditta Fish-Rothery-Hogarth, ha perfettamente colto il senso del richiamo. Si nota, tutt’al più, quale tratto distintivo, una tendenza alla dilatazione dei tempi e delle forme, più lontane dalla ‘canzone’ e sconfinanti nella ‘suite’, sia pure senza manifestato intento. In questo senso, senza difficoltà, è lecito avvicinare i Jadis ad altri illustri esponenti di certo rock sinfonico inglese, i Porcupine Tree (almeno nelle loro produzioni più recenti).
Non mancano, su ‘Fanatic’, momenti convincenti, soprattutto a livello melodico e di atmosfera, che vengono soprattutto dalla opener ‘The Great Outside’, dall’etereo strumentale costituito dalla title track, e dalla ballad ‘What Kind Of Reason’.
Altro da segnalare, in sostanza, non c’è: il disco scorre via veloce (per chi ami il genere, sia chiaro), gradevole, fresco. “Una boccata d’aria di montagna”, sospira l’ascoltatore appagato.

Ma il ‘povero’ critico (o presunto tale), chiamato ad inserire in una ipotetica griglia valutativa ciò che ha attraversato i propri padiglioni auricolari, come deve comportarsi? Duramente provato, quando non esausto, dalla sterminata messe di band che hanno eretto a sistema il deferente quanto sterile omaggio ai propri sollazzi uditivi di gioventù, si arroga il diritto di spazientirsi. “Chi non sa far stupir vada alla striglia”, predicava Giovan Battista Marino alla fine del ‘600, riferendosi ai troppi poeti senza nerbo dei suoi tempi.
Esoratazione agevolmente applicabile a qualunque altra forma d’arte, la prendo volentieri a prestito ora, vanamente invitando gli stanchi epigoni di band (a volte neppure senza troppo rammarico) dimenticate a dissolversi, evaporare, volatilizzarsi assieme alla loro musica, così fastidiosamente innocua e, in ultima istanza, sconsolatamente ignorante.

Pietro

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