Dopo aver pubblicato due dischi come “Somewhere in time” e “Seventh son of a seventh son”, album che mostravano al pubblico un sound e un nuovo volto della Vergine di Ferro, diverso da quello che li aveva contraddistinti prima del 1986, è ora per gli Iron Maiden di entrare a capofitto negli anni novanta, anni che vedono tra l’altro grandi cambiamenti.

I rapporti all’interno del gruppo iniziano a incrinarsi.

Finito il tour mondiale di supporto a “Seventh Son”, i Maiden decidono di prendersi una piccola pausa e in quest’arco di tempo sia Bruce sia Adrian decidono di dare vita ai loro progetti solisti, il primo pubblicando “Tattoed Milionarie”, il secondo invece, con Adrian Smith And Project (ASAP), pubblicò “Silver and gold”. Ma se per Dickinson questa fu solo, almeno per il momento, una piccola distrazione da quello che era il suo vero lavoro nei Maiden per Smith si dimostrò una vera e propria tempesta tanto che abbandonò il seno della Vergine proprio per dedicarsi completamente, anima e corpo, a un progetto che non decollò mai nel migliore dei modi. Il posto di Adrian fu preso da Janick Gers, personaggio camaleontico che suonò le parti di chitarra sull’allora disco solista di Dickinson.

La Vergine, ricomposta la propria formazione, ritorna in studio per registrare l’ottavo album e nell’ottobre del 1990 esce “No prayer for the dying” uno degli album più discussi e oscuri dell’intera loro carriera. Il disco merita diversi ascolti prima di essere apprezzato a pieno; il marchio di fabbrica targato Harris & Co. si sente ancora tuttavia l’arrivo di Gers porta all’interno del sound dei nostri diversi sconvolgimenti soprattutto a livello solista proprio a causa di un suo stile più grezzo e maggiormente vicino all’improvvisazione rispetto al sound più pulito e preciso di Smith.

“No prayer…” contiene un buon numero di brani soddisfacenti ancora oggi suonati dalla band nelle arene di mezzo mondo come “Bring you daughter…to the slaughter” o “Tailgunner” che diverranno dei veri e propri capisaldi nei loro concerti proprio durante gli anni novanta. Caratterizzato inoltre da una certa semplicità, “No prayer for the dying” alterna brani lineari e immediati, “Hooks in you”, “Holy smoke”, a canzoni più articolate ed epiche come la title track o la finale “Mother Russia” e tra queste spuntano fuori brani come “Run silent, run deep”, “Fates Warning” o ancora “Public enema number one” che sebbene si rivelino interessanti e piacevoli all’ascolto non riescono tuttavia a decollare e a coinvolgere l’ascoltatore come capitava con i brani passati.

“No prayer…” è un album da prendere con le molle e che non riesce assolutamente a rappresentare il passato della heavy metal band per eccellenza. Un album che contiene brani niente male ma che non consiglierei mai a nessuno per iniziare ad apprezzare questi cinque ragazzi. Alcuni anni dopo i Maiden prenderanno lo scivolone definitivo…ma questa è un’altra storia.

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