Contemplare in maniera universale il metal estremo sotto la guida dei tredici punti che caratterizzano, all’interno della Cabala, l’albero della vita rovesciato. Un proposito musicalmente pretenzioso e globalmente cervellotico che non costituisce un biglietto di credibilità invitante verso chi si accosta ai Daath. Impressioni, insinuazioni, sicuramente ingiustificate, che spesso minano l’accostabilità di un ascoltatore ad un determinato disco che invece, come nel caso di ‘The Hinderers’, viene a presentarsi interessante in fase d’ascolto.

La verità riguardante l’esordio su Roadrunner della band britannica (seguito del precedente autoprodotto ‘Futility’), come solitamente accade, sta nel mezzo tra presentazioni celebrative ed una possibile antipatia da “impatto”. Un disco decisamente buono, con una produzione spettacolare come da tradizione Roadrunner e caratterizzato da difetti sicuramente correggibili ed al momento digeribili. Come già detto, i percorsi su cui s’incamminano i sei musicisti in questione sono quelli della tradizione estrema con particolare enfasi verso il death, ma senza disdegnare il l’impatto del thrash teutonico qualche leggero inserto vicino ad un certo black sinfonico. Il risultato è tutt’altro che sgradevole o slegato in un lavoro in cui quello che piace e meraviglia è la compattezza e la coesione dei primi brani. Pezzi ben articolati che, nella loro anima progressiva e nelle loro ritmiche complesse, ci pongono al cospetto di un sestetto tecnicamente dotatissimo. Il risultato di queste condizioni è una miscela in cui ogni elemento è sistemato al posto esatto con gusto apprezzabile, senza far pesare su un disegno estremo l’uso moderato di sintetizzatori che col passare del tempo lievitano. Tredici brani che ci provano, spaziano, senza mai raggiungere la perfezione ma mostrandosi divertenti e godibili. Uno scenario difficilmente descrivibile a causa di quella varietà croce e delizia di un disco che parte in maniera discreta per poi incorrere in leggere battute d’arresto imputabili alla voglia di strafare. Echi che vanno dagli evidenti riferimenti a God Dethroned, Sodom ed Illdisposed, e passano per elettronica, atmosfere ed echi di Svezia. Un calderone verbalmente inconcepibile ma che, sul campo, si mostra un’idea potenzialmente interessante.

I Daath hanno merito e coraggio di tentare, andando oltre il copione ed assumendosi i rischi che questo atteggiamento comporta. E’ così che si presentano i difetti di brani che, in fondo alla tracklist, scemano, nel tentativo di piazzare il colpo, perdendo la cognizione ed uscendo fuori dal seminato. Nèi non compromettenti, che lasciano levitare questo disco poco oltre la sufficienza senza mai abbatterlo del tutto nè privarlo della speranza di un successore più maturo e davvero consigliabile.

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