Duro mestiere quello della band superiore: accostarsi alla realizzazione di un disco con la pressione delle attese e senza un catalogo di riff prefabbricati da riciclare. Una strada dura e impervia che, differenziandosi da quello che è l’irritante trend generale, gli Akercocke hanno deciso di percorrere, fin dai propri primi passi, con risultati strabilianti. E’ così che, senza rompere la tradizione, nè scalfire minimamente il proprio tiro, i sei britannici arrivano alla realizzazione del proprio quinto full-lenght con la solita brillantezza compositiva ed un nuovo carico di migliorie.

I sei musicisti inglesi tornano con un disco misurato su ascoltatori dal palato paziente, su chi è disposto ad assorbire con gradualità tutto ciò che viene proposto al suo interno. Tutto questo perchè, al di là di quelle che possono essere prime impressioni, la proposta degli Akercocke continua inesorabilmente a crescere sotto ogni punto di vista mantenendo il senso di occulto fascino che l’ha sempre caratterizzata. Il tronco musicale di riferimento continua ad essere individuato in brutal death pieno, denso, corposo che con le sue sinuose trame riesce ora a colpire ora ad emozionare con un’agilità strabiliante. Qualità rese ovvie dalla natura di una band che ha nel suo DNA uno studio spasmodico e cerebrale dei propri brani. Composizioni intircate, imprevedibili e, neanche a dirlo, originali in cui, senza danni nè immediatezza, si scambiano il testimone aperture sinfoniche, stacchi al limite del progressive e break che ripassano alla perfezione tutta la tradizione dell’estremo. Ancora una volta, dunque, l’aspettatore di turno non si aspetti scelte di plastica, strutture regolari e godibilità da hit. Qui tutto ciò che sembra inizialmente follia pura, dopo ascolti iterati è pronto ad assestarsi in un quadro simultanealmente perfetto e malsano. Una visione elitaria ed emotiva del metal estremo in cui è facile notare un’attenzione sempre più spasmodica verso la pura atmosfera. Il risultato di tutto ciò sono brani come la straordinaria ‘Ambient’ in cui digressioni al limite dell’ambient si scambiano testimoni, con climax epici, un growl sempre più profonfo e mazzate da far male anche all’ascoltatore più rodato. “Antichrist” è impulsività ed arroganza, classe ed irriverenza, genio e voglia di stupire grazie ad un’attitudine “antipatica” e spinosa che è il vero valore aggiunto degli Akercocke. Uno dei gioielli estremi dell’anno in corso, l’ennesima perla di una carriera priva di cali.

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