Due capolavori a confronto, due capolavori che, paralleli, si guardano a distanza di ottantasei anni. Di cosa sto parlando? Di “Metropolis” e di “Vertikal”. Il primo , capolavoro cinematografico, pietra miliare e morale di una società schiavizzata e robotizzata, magistralmente curata anche negli aspetti più particolari e minimi da un maestro come Fritz Lang; il secondo, un concept album, curato in modo quasi perfetto e congruente a Metropolis dai Cult of Luna. E l’obiettivo era proprio questo per Vertikal : un concept album ispirato da Metropolis di Lang, il quale, attraverso le track di cui si compone, facesse rievocare immagini e sensazioni che solo un capolavoro “industrial”, come quello cinematografico, ci ha saputo regalare. I Cult of Luna sono lontani dai loro lavori precedenti , lontani anche solo che da eternal Kingdom. Ne sono passati di anni dall’inizio dell’inizio terzo millennio..Dopo tredici anni troviamo maturità, eleganza e capacità di interpretazione di un tema – come quello affrontato da Lang, precursore di una società ciclica- a livelli molto elevati, con un metal che si incastra con drammaticità e introspettività, dai toni fantascientifici, cupi e psichedeleci. Un album che si intreccia ed interseca al film “musa”con il risultato di invogliare, sia chi non ha mai visto Metropolis e sia chi l’ha già visto, ad avere nelle orecchie i vari passaggi di questo album durante il film, che per inizio 2013 io mi permetto di decretare già (insieme a Target Earth dei Voivod) come uno tra i più spettacolari.
Cosa si può dire su questo album? Si può dire che tutto ciò che lo compone – con richiami basilari di Neurosis, Isis, Pelican e The Ocean (Collective)- a livello sonorità non si fa sfuggire quella parte importantissima svolta dalla freddezza rigorosa dei sintetizzatori, quindi della parte più dark/drone ambient che lo compone, richiamando così la freddezza delle scene “metropolitane” e quindi la freddezza di quei robot che soggiogati dal potere, implode nel dolore attuato dallo scream. Così’, ascoltando l’album, possiamo far calzare le immagini di Metropolis, nelle scene più importanti e rappresentative del film, con i vari pezzi che compongono l’album. The One è una apertura lugubre e grigia che calza perfettamente con l’inizio di Metropolis: la sensazione della cadenza delle percussioni, come passi, interrotti dal suono di una sirena incantatrice; incantatrice quanto lo era per quegli schiavi robotizzati di Lang, che non ci ricorda soltanto quelle scene, ma anche una buona dose di Sunn O))), che ritroveremo poi anche in altri parti del disco. Si passa ad I The Weapon, che spacca la linea oscura e ipnotica precedente per fare strada attraverso una sorta di presa di coscienza dominata dal dolore, condita da riff graffianti e potenti immersi in un vortice industrial, che calca così maggiormente, attraverso l’effetto elettronico, la freddezza , la metodicità e l’ormai privazione di anima di quei robot comandati dal potere. Il ruolo della voce è narratrice, extracorporale , è la razionalità di chi ancora riesce a essere consapevole del dolore e dell’ingiustizia; la parte strumentale, così triste, è descrittrice di vite incatenate e distrutte, che non possono più avere reazione. Così ci si apre, ad un cammino, ad un tunnel che dura 19 minuti che prende il nome di Vicarious Redemption. Una via compositiva e interpretativa molto lunga, che se ascoltata bene, ci fa catapultare esattamente nel film ispiratore: atmosfere dark ambient estremamente curate e realiste anche nei più piccoli particolari (un piccolo richiamo persino nei Nurse With Wound).
La prima parte vede la rassegnazione a quel mondo, attraverso la linea ambient, per spaccarsi a poco a poco durante il brano con il risveglio di chitarre forti e potenti, come se si stesse rialzando una coscienza morta e sepolta, per sfociare in un doom che ancora una volta segna rabbia e dolore abissali. Continuiamo quindi la distorta e “sinth-etica” The Sweep, per proseguire attraverso la spettacolare Synchronicity, per me uno dei pezzi, più evocativi e rappresentativi del concept, dove si sente perfettamente e si capta, lo scandire di quelle lancette, di quell’orologio che segna un tempo morto, rimarcato ancora più dall’atmosfera “undead” che si respira per tutto il brano. Si passa poi all’apocalittica Disharmonia che, con la precedente track, fanno da cardine e da padrone sonoro all’album. “La quiete dopo la tempesta” la si ritrova in Mute Departure, dove una sorta di carillon sembra toccare e far risvegliare sentimenti ormai uccisi e congelati, fa sciogliere canali lacrimali pietrificati da ghiaccio acromatico ed atono, per cadere come un fiume pieno di risentimento e dolore in “In Awe Of”, come una corsa contro il tempo perduto, quel tempo che non tornerà più ma che si desidererebbe tornasse. L’amore e la vita: nascono per essere imprigionati e destinati a morire. Tutto questo lo si capta attraverso Passing Through, un altro, a parer mio, dei pezzi più interessanti e rappresentativi. La voce, che per ora è stata narratrice di urla strazianti , passa in prima persona al soggetto stesso, come se l’anima e il cuore di quel protagonista, stessero scrivendo una sorta testamento, che ormai nessuno leggerà, come se stesse esprimendo senza speranza quello che avrebbe sempre desiderato ma di cui è stato privato: Passing Through è uno dei pezzi più toccanti ed emotivi grazie anche al lavoro di chitarra e di voce sussurrante, come esalazione di un ultimo respiro e di sogni ormai infranti, che chiude questo concept in maniera prodigiosa. La loro progressività sperimentale nel tempo, è sfociata in un album che per gli afficionados forse non potrebbe risultare subito apprezzabile, ma che eleverebbe anche gli stessi ad un livello di consapevolezza sonora che fa definire questo lavoro non certo come una spina nel fianco della discografia dei CoL, ma come emancipazione progressiva di un post metal profondo e geniale.