Classe e inventiva. Sono questi i tratti caratterizzanti della carriera di Glenn Snelwar, un chitarrista che, al contrario di molti altri colleghi, non ha mai tradito la propria personalità misurata, elegante e mai fuori luogo. E’ così che una carriera iniziata sotto i colpi fini dei Gordian Knot non poteva certo scadere una volta intrapresa l’impervia e pericolosa via della carriera solista. In accordo con ogni previsione, infatti, l’ottimo axe-man statunitense arriva al secondo lavoro del suo giocattolo solista, chiamato At War With Self, con la solita concentrazione, l’entusiasmo dell’eseordio ed un’ispirazione sempre maggiore.

‘Acts Of God’ è sicuramente un disco particolare, sentito, che si lascia comprendere ed assimilare con gli ascolti senza per questo abbandonarsi al difficile fine a sè stesso. Con la spontaneità di chi conosce la visione finale del proprio prodotto, il musicista d’oltreoceano ed i colleghi di cui si è circondato forniscono una prova interessante, oltre che per la tecnica, soprattutto per il notevole coraggio mostrato nel toccare certe sonorità. Chi, infatti, da questa formazione si aspetterebbe il classico disco di canonico rock progressivo potrebbe rimanere, come e ancor più nel caso del suo predecessore, deluso. Quell’anima, facendo parte del background stilistico di Snelwar, non viene di certo occultata ma diviene una mera base sulla quale comporre musica varia, camaleontica ed ispirata. Vari generi e strumenti si alternano alla guida di nove composizioni tanto diverse quanto accomunate da un’omogeneità disarmante che è il valore aggiunto dell’album. Con disinvoltura e fluidità si passa dalla stupenda introduzione acustica della sette corde di Glenn, per passare alla psichedelia settantiana di altre composizioni transitando per un bacino di idee che include elettronica, funk ed uno stupefacente post-rock ravvisabile in non poche linee vocali tracciate da Damon Trotta. Cresce sempre più l’attenzione verso le atmosfere che si impongono sognanti e distese grazie all’intelligente utilizzo di sintetizzatori, voci distaccate, tempi lenti e suoni “liquidi” come nel caso di “Ursa Minor”. A fare da contraltare ad una calma strumentale solo apparente, un dinamismo ritmico e spasmodico che esige di togliere ogni minimo riferimento ad un ascoltatore spiazzato ed estraniato da una dimensione eterea, materializzata da tutte le scelte che si susseguono, siano esse beffardi e sottili assoli o aperture in arpeggi oscuri (“Martyr”). Testimonianze trasparenti di classe sopraffina ed arte di comporre un disco vero e proprio, dando continuità di contenuti a tracce che non appaiono mai lì a caso. Scelte di stile, come l’autore che le ha concepite che ancora una volta regala un manuale d’eleganza musicale.

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