Assolutamente il migliore episodio della carriera degli Unearth. Sentenza secca, decisa ed unanime, che trova perfetto riflesso tra le note ‘III: In The Eyes Of Fire’, terza opera della band statunitense, destinata a rimanere nel cuore di chi si troverà sulla sua strada.

Curato in maniera eccezionale da un “tale” Terry Date – per i dormienti, già produttore di Pantera, Metal Church, Deftones, Nirvana, Pearl Jam tra gli altri – ciò di fronte a cui ci mettono i quattro musicisti a stelle e strisce è un lavoro di livello, gusto e, soprattutto, dinamicità rare. Il lavoro delle ritmiche sposta, infatti, il tiro verso il thrash più moderno, “cyber” e spiazzante, restituendo un risulato pieno e compatto. Da qui, per chi conosce la band, è facile intuire la rotta intrapresa dall’ottima formazione di Boston: coraggio di scrollarsi di dosso quei trend usurati che essa stessa ha contribuito a creare per forgiare qualcosa che, senza alterare la tradizione, abbia un certo valore artistico. Molta più acidità hardcore (vero) e molto più oltranzismo thrash (vero), dunque, a sfavore di ciò che chiunque si aspetterebbe da una band tradizionalmente imparentata con il metalcore, ovvero break emo, cattiveria di plastica, scimmiottamenti degli ultimi In Flames e di tutto ciò che sappia di Svezia. Qui la Svezia, invece, c’è, intesa in maniera continuativa ed intelligente, nei riff, protagonisti, dell’ottima coppia Susi/McGrath: chirurgici, precisi, pieni d’idee varie ma organiche e decisi in fase di songwriting. Un songwriting testimone di personalità e risorse da cui attingere per uscire levitare fuori dal “medio”, da cui imparare e per cui, a prescindere dai gusti, oggi è possibile soltanto mostrare rispetto ed ammirazione. Consigliato.

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