Giunto al secondo album da solista, il tastierista dei Flower Kings (che qui, ovviamente, si presenta in veste di factotum, dalla fase compositiva a quella di produzione) ci fa, né più né meno, entrare direttamente nel suo mondo musicale: il lavoro in questione si presenta, infatti, come una ricca miscellanea di tutto quanto ha costituito, per Bodin, fonte di ispirazione e influenza, in modo più o meno marcato.
Molto più semplice per chi scrive, pertanto (e forse anche per chi legge), è limitarsi ad enumerare i percorsi sonori di cui si diceva: si va dai Beatles alla musica classica orchestrale, dagli Emerson Lake And Palmer a svariati generi folk e etnici (musica macedone, araba, africana)… e ancora, jazz, colonne sonore e musica elettronica… e, posso assicurarvelo, c’è assolutamente tutto quanto ho citato. A dire il vero, peraltro, a quanto emerge dai brani, pare che il buon Tomas abbia approssimato per difetto l’elenco del proprio raggio di suggestioni. Fanno infatti capolino, qui e là, altri gustosi momenti, presi a prestito dai luoghi più diversi: il finale di Harlem Heat, per esempio, è costituito da un vero e proprio coro gospel, alle prese con un trascinante canto simil-spiritual; Blood, invece, pare quasi stralciato dalla colonna sonora di un film di vampiri (e anche il titolo sembra confermare…); ogni tanto fanno capolino anche i Floyd, e non di rado aleggia lo spirito dei grandi gruppi progressive dei Seventies (la stessa formazione presente nel disco, facilmente, ricorderà gli ELP); ma non manca anche lo spazio per un paio di interludi pianistici, giocosi e divertiti: mi riferisco a My Beautifil Neighbour e a The Ballerina Is Not Getting Closer, il secondo dei quali richiama alla mente atmosfere dell’Europa dell’Est, da locale off della vecchia Pietroburgo…
L’imbarazzo nel dover descrivere un disco del genere sarà apparso evidente; d’altra parte, di fronte a un (come chiamarlo? cammeo, minestrone, macedonia, ribollita? fate voi…) lavoro tanto variegato, il ‘recensore’ sarà ancora più spiazzato e in difficoltà di un qualunque ascoltatore. A quest’ultimo è concesso di abbandonarsi al mulinare di brandelli sonori che questo lavoro catapulta nel suo orecchio; deciderà poi, senza porsi troppi problemi, se rimanerne affascinato, piacevolmente sorpreso o nauseato. Lo scribacchino, per contro, è in preda a un dilemma: lasciarsi guidare dallo stomaco o dalle orecchie (da considerarsi, qui, quali propaggini del cervello).
Messa da parte la tentazione di servirsi del primo, le seconde gli suggeriscono di considerare “Pinup Guru” tenendo ben presente l’intento con il quale è stato composto: divertirsi, senza preoccuparsi né della forma né (forse) della sostanza, che appare – come più volte detto – frammentaria e disorganica. Eccolo, il limite di moltissimi (troppi) solo project: dare libero sfogo a istanze musicali che, nei contesti ‘istituzionali’ (leggasi i gruppi madre) non possono trovare libertà di movimento. Limite, sì, perché troppa carne al fuoco finisce per bruciacchiarsi: la soddisfazione di chi si è divertito ad usare carbonella e forchettoni è sicura… i commensali, invece, hanno forse placato la fame, ma il palato è deluso…

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