Altro giro altra corsa: la ruota d’acciaio dei Saxon sembra proprio non volerne sapere di fermarsi e a due anni di distanza dal fortunato “Into The Labyrinth” è già tempo di sequel. Cosa si  può aggiungere ad una band che potremmo banalmente etichettare come leggendaria? I Saxon hanno definito i cardini di un genere, di uno stile di vita, anche di una certa estetica se vogliamo, e sono ancora oggi capaci di dettare legge nei festival di mezza Europa, consapevoli ormai del proprio status di autentica icona. Ecco, proprio mentre sono qui a scervellarmi nel tentativo di raccontare con parole originali l’ennesimo capitolo della band, irrompono le prime note “Hammer Of The Gods”; lo sferragliante riff del brano simbolo di questo “Call To Arms” rimbomba prepotentemente e fuga ogni eventuale dubbio. Un attacco come questo, secco e potente ma non troppo debitore verso il sound “tedesco” degli ultimi dischi, non ce lo regalavano da anni. “Call To Arms” suona esattamente come suonerebbe un disco di una qualsiasi band con oltre tre decadi di carriera: rassicurante, fedele alla tradizione e perchè no, prevedibile. Incarna alla perfezione le intenzioni di chi lo ha partorito, dimostrare che la band è viva, vegeta e ha ancora tanto da dire. Tralasciando improbabili paragoni (Byff  ha scomodato persino “Denim & Leather”),  i pezzi sembrano davvero essere di un altro livello rispetto al recente passato e la band continua a mantenere vivo quel senso di divertissement che ha caratterizzato non a caso i momenti più alti in carriera. Gli amanti del metallo incandescente gioiranno sulle note della opener o di “Afterburner”, sapientemente lavorate dalle mani esperte di Charlie “Re Mida” Bauerfiend. Chi invece come me apprezza i Saxon nella loro veste più scanzonata potrà consolarsi con “Surviving Against The Odds” o “Chasing The Bullet”. La band poi non se la cava male neanche con le tonalità oscure di “No Rest For The Wicked”, altro brano degno di nota al pari della toccante title track. “Ballad Of A Working Man” infine è invece un riuscito tentativo di rievocare i suoi gloriosi esordi come mai forse la band era riuscita prima d’ora. Davanti a tanto ben di Dio, viene persino facile perdonare il quasi plagio di Perfect Strangers in apertura di “When Doomsday Comes”, che non a caso vede Don Airey nelle vesti di special guest. “E’ già tanto averli ancora qui” è il primo pensiero che mi viene quando si parla di loro, sebbene la band si dimostri viva e vegeta e dal vivo abbia ancora un tiro pazzesco; Byff e soci non fanno prigionieri e si riscattano finalmente anche in studio presentandosi a sessant’anni suonati con il loro miglior disco da quattordici anni a questa parte, un disco per cui molte giovani bands sarebbero pronte a fare carte false, senza alcun dubbio. Compratelo, sarà anche un’affermazione scontata, ma ha un senso, ora più che mai.

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