Quando si dice talento, autocritica e voglia di mettersi in gioco. Reduci da una gavetta alquanto breve ma costellata da numerose apparizioni live “migliorabili” ed un demo acerbo, i Near Death Experience giungevano all’importante appuntamento col primo full-lenght con le normalissime credenziali comuni a tante band all’esordio. E’ a questo punto della storia che entrano in gioco le qualità di cui sopra che, unite ai giusti innesti, hanno consentito alla band il parto di uno dei più interessanti debutti di cui il panorama italiano abbia potuto godere negli ultimissimi anni.

Il figlio di tanto entusiasmo da parte di chi scrive è stato battezzato con il nome di ‘Threshold Of Consciousness’ e si presenta come una creatura completa, matura e ricca di personalità. Come già fatto in passato, la formazione per metà calabrese e metà campana, per vestire la propria proposta si affida al solido modello dettato dal thrash atipico e comunicativo dei Nevermore, qui rivisitato ed arricchito con un’impronta ricca ed ispirata. I brani, infatti, oltre ad essere pervasi da una profondità che arriva fin dal primo ascolto al fruitore di turno, si mostrano variegati da un sound “abbondante” e da un approccio che, senza sintetizzare alcunchè, appare decisamente moderno. Il gusto della melodia, sia a livello vocale che nel riffing, appare davvero sopraffino grazie fraseggi di lusso ed uno stile, da parte di Lupo, che compie passi in avanti enormi rispetto al passato. Il singer, grazie alla sua capacità di staccarsi dallo stereotipo in carta arbone di Warrel Dane, riesce ad esibire un’espressività propria che invita la sua ugola in territori davvero piacevoli, istrionici ma, anche e soprattutto, in linea con le migliorie imprevedibili della proposta. Una proposta che mostra, in maniera trasparente, un’originalità che va oltre la retorica da recensione ma che riesce a manifestarsi palese attraverso numerosi ed agili passaggi di testimone tra la profondità già citata, riferimenti a Pantera ed un certo modo “urbano” di concepire il thrash statunitense ed un fare progressivo che rende un aspetto obliquo al tutto. Elementi all’apparenza contrastanti ma che, messi in mano ad ottimi e preparati musicisti (ragazzi che evidentemente conoscevano bene la propria creatura prima di mettere piede in studio), riescono a quadrare all’interno di un cerchio camaleontico ma omogenero, asimmetrico ma immediato. E’ così che emerge un disco dove ci si può permettere di passare dall’aggressività persuasiva dei primi brani, all’ariosità di una perla come ‘Building Ruins’ passando per la pace dettata dal piano di ‘Night Ocean’ e l’ipnosi della strumentale ‘Dressed Of Darkness’ in cui il solo basso dell’ottimo Mike (new entry) offre un minuto di magia e quella tecnica ficcante che sembra essere il tema portante dell’intero disco. Difetti? Pochi, talvolta ininfluenti e rintracciabili in un’abbondanza di idee che in qualche brano trabocca e diventa indomabile come accade in ‘At The Mountains Of Madness’ e tratti di ‘Clepsydra’ in cui l’istinto prevale sul fosforo causando pezzi leggermente confusionali e qualche gradino sotto gli altri.

Un quadro generale decisamente entusiasmante che, arricchito da una produzione pulita e puntuale così come da collaborazioni di lusso (i chitarristi Gianluca Ferro dei Time Machine ed Emil Bandera dei Death SS), non lascia scampo ad interpretazioni di sorta e lancia, sul suolo italico, una band che, per il futuro, suscita già attese e, allo stato attuale, merita un vasto bacino d’attenzione.

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