Aspettavo ormai da tempo l’arrivo nei negozi di “Freeman” nuova release degli italiani Labyrinth. Personalmente la band in oggetto è sempre stata una delle mie preferite e ogni disco da loro pubblicato in questi anni è stato per me come una piccola e preziosa perla da custodire gelosamente.
Sin dal disco di debutto “No limits” questi sei ragazzi hanno dimostrato di essere un gruppo capace di osare e di non avere alcuna paura nell’inserire all’interno dei propri album particolari tipi di sonorità che in certi frangenti avrebbero potuto lasciare di stucco l’ascoltatore. Questo modo di fare si è sviluppato così tanto nel corso degli anni che la band ha abbandonato parzialmente le sonorità tipiche degli album d’esordio per concentrarsi maggiormente su un tipo di sound più progressivo che vede fondersi magnificamente il power metal tipico del gruppo con parti più sperimentali e futuristiche. “Freeman”, allo stato attuale delle cose, può essere visto come il capolavoro assoluto della band.
La coppia Cantarelli-Gonella è autrice di un’ottima prova alle chitarre variando sensibilmente ad ogni istante le ritmiche dei pezzi e creando soli interessanti e complessi dal punto di vista esecutivo; Roberto Tiranti, non mi stancherò mai di dirlo, si svela come al solito uno dei migliori cantanti in circolazione, capace di “graffiare” nella parti più aggressive delle canzoni e in grado di donare un’incredibile carica emotiva ai pezzi più melodici e d’atmosfera, mentre Andrea De Paoli crea, con le tastiere, suoni futuristi e sperimentali che ben si sposano con il lavoro degli altri ragazzi. “Freeman” è dunque un album vario, destinato ad un’audience molto ampia, ma che richiede numerosi ascolti in quanto i brani che lo compongono sono incredibilmente complessi e ad ogni ascolto si scopre qualche elemento in più che durante l’ascolto precedente era sfuggito. L’album si apre con la bellissima e cadenzata “L.Y.A.F.H.” canzone dall’andamento power-prog che vede il suo maggiore punto di forza in un Tiranti davvero ispirato dietro al microfono e ad un chorus trascinante e melodico; si prosegue con “Deserter” che riesce a passare dall’iniziale intro acustico ad una strofa incredibilmente melodica fino ad arrivare a parti più tirate e pesanti di chiara matrice thrash.
Torna il power metal caratteristico dei Labyrinth con le veloci “Dive in open waters” e “Infidels”, mentre la title track e la successiva “M3“ vedono De Paoli impegnato a creare sonorità techno-elettroniche che mi riportano indietro con la mente a “No limits”. I Labyrinth continuano a stupire e “Face and Pay” colpisce in faccia più forte di un pugno con le sue ritmiche tipicamente thrashy che si risolvono in un ritornello più arioso e classic fino ad arrivare ad un inaspettato break centrale di matrice jazz. Tiranti continua sempre di più a sbalordire e con “Malcom Grey” è autore di una prova vocale superba, al limite della recitazione teatrale tanto è drammatica e carica di feeling la sua interpretazione. Tornano sonorità tipicamente Labyrinth con le conclusive “Nothing new” e “Meanings” che tra accelerazioni, incredibili battaglie soliste tra Gonella e Cantarelli terminano questa nuovo album. È evidente come in “Freeman” nulla è stato lasciato al caso. Tutta la band è autrice di un’ottima prova che li vede protagonisti assoluti di un album che ha al suo interno elementi metal ma che non ha paura di osare sperimentando scelte stilistiche più moderne e varie.

I Labyrinth rappresentano una di quelle band che mi fanno sentire orgoglioso di essere un metallaro italiano. Complimenti a tutta la band.

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