Senza titolo, con un artwork scarno e un’aria fredda ed invecchiata. E’ così che i Korn, nella loro sempre più rimaneggiata formazione, si ripresentano al pubblico all’alba dell’ottavo full-length. Se le sensazioni citate siano sintomo di smarrimento, scelte volute o suggerite, rimarrà un ostico, quanto inutile, interrogativo su cui ciascuno potrà sentirsi custode della verità assoluta. Analizzando l’oggettiva e fredda realtà ad emergere è, invece, una band che, pur perdendo mordente a quintali rispetto ai temi che furono, riesce a compiere leggeri passi avanti rispetto al fiasco “See you on the other side”.

La seconda fatica al servizio di Virgin/EMI segna, dopo il doloroso addio del fondamentale Head alla chitarra, la defezione di un’altra colonna dei vecchi fasti. Esce, forse temporaneamente, David Silveria ed entra Terry Bozzio (già con Steve Vai e Frank Zappa) e, seppur rimanendo invariata la molle sostanza che aveva scandito l’uscita precedente, la forma assume sembianze quantomeno più cerebrali e fascinose. Non si blocca l’involuzione che ha introdotto, all’interno della proposta dei nostri, l’utilizzo di scelte leggere, sonorità sempre più ineffabili e facili melodie pop-oriented. I dodici brani di “Untitled” scorrono ancora una volta via leggeri, senza mordente ma lasciando, in questo quadro poco entusiasmante, qualche nota di merito isolata. Gli incolmabili vuoti lasciati dalla chitarra di Head vengono stavolta rattoppati con il mestiere che compete ad una band di esperienza e caratura come i Korn. Se il contesto generale è poco carico ed incisivo, le melodie cominciano, anche se lentamente e parzialmente, ad acquisire quel ruolo incantatore dovuto in un platter in cui l’ascia si conferma sempre più mera comparsa. E’ così che le composizioni acquistano una resa a tratti suadente e fascinosa che, nonostante la dissonanza con il fare ruffiano generale, acquisiscono un marginale perchè in un’opera oltremodo mozzata ed incompleta. Caratteristiche che restituiscono un disco altalenante, privo di un’anima e che nel tentativo di apparire camaleontico fa storcere il naso per la sua pachidermica agilità nel passare da brani atmosferici molli, a sbilenchi tentativi industrial, transitando per qualunque ingrediente che faccia brodo. Il resto? Tra una produzione perfetta ed un Jonathan Davis sempre maestoso interprete, è la triste cronaca di una formazione che, più di ogni altra, nella sua inevitabile discesa necessiterebbe del prezioso contributo di calma ed autonomia.

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