Secondo disco e secondo exploit commerciale per i Disturbed: dopo il fortunato debutto (“The Sickness”, quasi due milioni di copie vendute) e il conseguente tour di spalla a Marilyn Manson, “Believe” arriva a piazzare sul mercato qualcosa come trecentomila copie nel giro di una settimana.
Negli Stati Uniti la band di David Draiman (voce) ha acquistato una popolarità quasi sconcertante, è ormai noto come lo possano essere le nuove leve del “nu-metal”, dai Papa Roach ai Mudvayne passando per i più quotati System of a Down. “Nu-metal”, ho scritto, quel dittico che tanto fa adirare i cultori di Manowar e Hammerfall. I Disturbed si possono tranquillamente inserire in questa categoria ma hanno dalla loro una maturità artistica che non tutti i fenomeni da baraccone imperversanti in heavy-rotation su MTV possono permettersi.
L’impressione che mi sono fatto ascoltando massivamente “Believe” è che i Disturbed potrebbero realmente dire qualcosa di importante nell’universo rock moderno, ma non ne hanno la piena consapevolezza (non ancora, almeno). “The Sickness” ci consegnava un gruppo, per quanto valido, forse troppo ancorato ad alcuni clichés tanto cari a Korn e affini: sezione ritmica essenziale e chirurgica, riff serrati, cantato a metà tra lo psicotico e lo stralunato; i brani erano comunque interessanti e c’era qualche colpo da maestro (le ferocissime “Numb” e “Conflict”, ad esempio). Abbastanza per riporre qualche speranza sull’effettiva consistenza di un genere che replica sé stesso in maniera imbarazzante.
Purtroppo non tutti i desideri sono stati esauditi e Draiman e compagni si sono accontentati di creare un disco di buone canzoni, e basta. Mi spiego: non che le buone canzoni non bastino a giustificare l’acquisto di un cd, ma troppo forte è la sensazione che si potesse fare di più.
Il nuovo album dei Disturbed è più maturo rispetto al proprio illustre predecessore, sposta le coordinate su una componente melodica che stempera certe asprezze evidenti sul debutto, senza per questo perdere un’oncia di aggressività. La produzione e l’aspetto tecnico migliorano notevolmente, David Draiman si conferma uno dei cantanti più espressivi della scena rock (pur senza raggiungere la duttilità straniante dei vari Maynard James Keenan o Mike Patton). Il singer dei Disturbed ha un timbro enfatico, drammatico, è a suo agio nei pezzi più tirati (“Liberate”, “Intoxication”) come in quelli più intimisti (la convincente “Awaken” e la conclusiva, commovente “Darkness”).
Cos’è che stona allora? Forse la cosa più importante: il songwriting. Tutte e dodici le canzoni di “Believe” seguono una formula fin troppo prevedibile che ha nel ritornello il suo punto di forza. L’impatto è di quelli che lasciano il segno, ma col tempo c’è il rischio che ogni cosa venga cancellata. “Rise”, “Bound”, la stessa “Prayer” (primo singolo con relativo video-shock che potrete visionare se doveste acquistare il disco) sono pezzi dall’appeal irresistibile, ma la struttura è troppo manieristica, non sorprende, e dopo poco si insinua una sgradevole sensazione che è con tutta probabilità la fase embrionale della noia.
Un vero peccato quindi, perché i Disturbed sono dei musicisti dalle capacità indiscutibili e hanno un cantante che potrebbe salvare qualsiasi cosa. Adesso è ora che rischino un po’ di più.
Sufficienza abbondante, ma per non essere dimenticati hanno bisogno di fare qualche passo in territori magari non propriamente rassicuranti.

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