Come al solito generosa e lievitata, la bio allegata ad ‘Hypocrisy’s Fair’ presenta gli Sneak come di una band allergica alla scontatezza e sempre alla “continua ricerca di nuove sonorità”. Invece? I riscontri di tanti buoni propositi verbali si sbriciolano, prevedibilmente ed inesorabilmente, già al primo ascolto di un lavoro mai pessimo ma ancora lontano anni luce dall’apparire nuovo o imprevedibile. Le ragioni sono tutte da individuare in una raccolta piuttosto meccanica di sonorità già ascoltate circa una decade fa e messe insieme in maniera, sì funzionale ma piuttosto legnosa. La formula, iterata in maniera omogenea ai quattro brani proposti, prevede il ricorso ad elementi tanto sicuri quanto ingombranti come l’urto dei Machine Head, la malinconia dei Korn ed il decadentismo di certi Deftones. I brani, retti sull’alternanza di strofe cadenzate su down tempo e ritornelli in clean ruvide e striscianti, si mostrano abbastanza piacevoli ai primi assaggi per poi essere soffocati sotto le ingombranti eco da cui hanno preso vita. Il risultato è un sound dalla vita breve che, con questi ingredienti, può soltanto obbligare la band a quello stesso limbo in cui è caduto l’innumerevole numero di formazioni che proponeva le stesse cose mixate in maniera differente. E’ così che, nonostante un’intensità sempre elevata, un buon coinvolgimento emotivo ed un buon tiro, tutto ciò che di positivo viene proposto finisce per passare inosservato sotto i colpi di scelte quanto meno opinabili. Se al contesto evidenziato dalle righe sopra si aggiunge una produzione scarsa ed un approccio vocale molto migliorabile (da dimenticare in “Non Senti”) allora si capisce come la strada da percorrere, per emergere ed offrire una ragione per farsi preferire, è ancora lunga e complessa.