Lo ammetto, questa recensione è soltanto un pretesto per un excursus su una delle bands più interessanti in cui mi sono imbattuto di recente. Mi riferisco agli Heart Of Cygnus, giovane duo californiano giunto rapidamente al traguardo del terzo disco. Una band per certi versi ancora “work in progress” se parliamo di line up ma che ha dalla sua già due dischi di indubbio valore e una popolarità in rapida ascesa grazie al consueto tam tam della rete. L’ultimo arrivato della loro breve discografia si intitola “Tales From Outer Space” e giunge, un po’ a sorpresa, ad appena un anno dal precedente “Over Mountain, Under Hill”. Con i suoi trenta minuti di durata, “Tales…” potrebbe essere frettolosamente etichettato come un’appendice del suo predecessore, magari assemblato in tutta fretta con scarti delle sessions precedenti. Niente di più sbagliato.
Le influenze dei Kansas, dei Rush di “2112” e dei primi Iron Maiden sono immediatamente riconoscibili e proprio da questa strana miscela nasce un sound vivace e affascinante; tempi incalzanti, lunghe fughe chitarristiche, intriganti vocals dal sapore settantiano, soli armonizzati; un progetto fatto in casa e nato quasi per gioco, un gruppo di giovanissimi che ripropone la lezione dei grandi vecchi in maniera personale e assolutamente convincente. Oggigiorno in ambito musicale non si inventa (quasi) più niente e forse non è neppure necessario. Gli Heart Of Cygnus sono il classico gruppo che sin dal primo ascolto lascia intendere di avere in mano la carta vincente. Se ne sono accorti persino quelli del Keep It True che in quanto a fiuto, si sa, non sono secondi a nessuno; non a caso la band americana è fresca reduce da una applauditissima esibizione nella prestigiosa venue tedesca. Se n’è accorto persino un certo Mike Portnoy inserendo “Over Mountain, Under Hill” fra i suoi dischi preferiti del 2009. Serve altro?
Se “Over Mountain” è ad oggi il disco che meglio rappresenta gli Heart Of Cygnus, “Tales..” ne è la prosecuzione e neanche tanto logica; più marcata l’influenza dei Queen nelle parti di chitarra, più decisi gli inserimenti delle tastiere, accompagnati da incursioni che vanno dallo speed (vedi la conclusiva e bizzarra “Xbsn”) alla psichedelia (“Starship Troopers”) con incredibile naturalezza. La cavalcata epica di “Space Trilogy” riprende in pieno lo stile di pezzi come “Black Riders” dal disco precedente; sopratutto la Part III è un vero e proprio andirivieni di fughe chitarristiche, riff sabbathiani, ritmiche ora incalzanti ora più complesse ma sempre ben distinguibili grazie all’accattivante cantato di Jeff Lane.
Aggiungete un’estetica e un concept vagamente vintage che attingono a piene mani dallo sci-fi americano e capirete che c’è molto di più del solito manipolo di strumentisti. Se siete amanti del rock progressivo, se amate tanto le atmosfere ondulate e sognanti degli anni ’70 quanto le forsennate ritmiche NWOBHM beh, questa è musica per le vostre orecchie, ma anche in caso contrario sono certo che non resterete insensibili al fascino poliedrico di questa band.

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