Bisogna essere coraggiosi per compiere delle scelte di rottura e sicuramente il fatto di aprire un disco con una suite di 17 minuti di durata rientra a pieno titolo nella categoria dei salti nel buio. Chissà il pubblico meno avvezzo all’ascolto di partiture complesse cosa ne penserà? Sarà in grado di comprendere la proposta artistica dei brani? Effettivamente la risposta non è né affermativa, né negativa.

Finn Arild è un musicista neozelandese trasferitosi ormai da diversi anni in Norvegia, dove vive con la sua famiglia composta da lui stesso, sua moglie e due gatti. Note biografiche a parte, questo Testament è il secondo lavoro a portare la sua firma e si staglia su coordinate prog rock care a quelli che furono i Genesis di un tempo, ma induriti da sezioni quasi tendenti al metal.

Venendo alle questioni poste in apertura di recensione, il fatto che Testament si apra con due pezzi quasi totalmente strumentali lo rende certamente molto suggestivo, ma anche di difficile digestione, non presentando di fatto porzioni figlie di una genialità creativa che potrebbe essere associata ai grandi del prog. Ascoltare quindi 65 minuti di suggestioni ora lievi, ora più dure pone il fruitore in una posizione ardua, infatti è necessaria una predisposizione mentale che consenta di godere appieno la comunque buona proposta del compositore neozelandese.

Tenuto conto di tali premesse, è abbastanza chiaro che gli episodi più riusciti e meno forzati siano quelli in cui la voce di Finn la fa da padrone, cioè la ballad All Right o la conclusiva Nemesis. La seconda parte di questo lavoro, quindi, è dedicata alle composizioni meno ardite e più accessibili, settore nel quale il Nostro se la passa decisamente meglio.

Certo, si tratta comunque di un disco che esula dal metal se non per qualche sparuto passaggio sparso qua e là al suo interno, ma comunque è un’opera sufficientemente apprezzabile e godibile, superato lo scoglio iniziale dei primi 20 minuti piuttosto ostici. L’artista che compie scelte “difficili” come quella di accontentare prima sé stesso e poi il pubblico va in ogni caso applaudito, ma, come in tutti i campi, c’è chi vi riesce meglio e chi meno. Il caso di Finn Arild si pone esattamente al centro.

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