Dopo il flop del loro precedente lavoro e l’abbandono del mostruoso chitarrista George Lynch mi ero convinto che ormai i Dokken appartenessero a quell’insieme di grandissimi gruppi degli anni 80 destinati a restare tali solo nella memoria di chi, come me, è cresciuto nel loro ascolto. Il dubbio però di essere stato troppo frettoloso nel giudizio e la curiosità di sentire il gruppo con il nuovo chitarrista mi hanno spinto a dare loro un’altra chance, e la mia fiducia è stata ripagata: “Erase The Slate” fin dal primo ascolto ha spazzato via ogni possibile dubbio sul valore attuale dei Dokken restituendomi un nuovo grande gruppo, degno erede di quello che quindici anni fa sfornò capolavori assoluti quali “Tooth And Nail”, “Under Lock And Key” e “Back For The Attack”.
Lo stile dei Dokken nel corso degli anni non è mutato affatto, essendo da sempre una miscela vincente di energia, ritmo e ruvidita’ da un lato, armonia, melodia e tecnica dall’altro. Queste caratteristiche, solo apparentemente inconciliabili ma perfettamente amalgamate tra loro, hanno contraddistinto ogni loro pezzo e nutrito schiere sempre maggiori di appassionati, consentendo al gruppo perfino di insinuarsi nelle preferenze dei più accaniti oppositori del loro genere musicale. A questo numero considerevole di fans vanno poi aggiunti tutti i patiti della sei corde, da sempre ammaliati dall’estro e dalla bravura di Lynch. Si allontaneranno questi ultimi ora che questo ha abbandonato il gruppo? Non credo, perchè Reb Beach, già ascoltato nei gruppi di Kip Winger e Alice Cooper, è forse la nota più positiva del disco: perfettamente a suo agio nel sound del gruppo e per nulla intimorito dall’eredità di Lynch, il chitarrista sforna una dietro l’altra delle prestazioni eccellenti che rendono ogni singola traccia del lavoro particolarmente gradevole.
Il disco parte con la titletrack, un brano graffiante e ritmato, con un Don Dokken al livello delle sue migliori prestazioni e un Beach spigliatissimo e furioso nel finale. Segue “Change The World” che dopo un duro riff iniziale sfocia in un brano molto melodico ed orecchiabile, forse il più commerciale del disco. Con “Maddest Hatter” si torna a correre sull’autostrada del metal di classe, con un bridge dal tempo differente e un assolo molto ispirato. Un breve intro conduce a “Drown”, un mid tempo dalla cupa atmosfera, duro e raffinato allo stesso tempo. Accattivante la melodia di “Shattered”, con un chorus melodico ed un’altra grande prestazione di Beach. Dopo la cover “One” dei californiani Three Dog Night (dall’album omonimo del ’69), è il turno di “Who Believes”, una ballad dal ritmo cadenzato che sembra voler esplodere da un momento all’altro. Il basso di Pilson all’inizio di “Voice Of The Soul” ci riporta sui binari classici dei Dokken e il brano scorre via piacevolmente grazie anche al solito Beach. “Crazy Mary Goes Round” vede Don Dokken cedere il microfono a “wild” Mick Brown, per un brano allegro, quasi glam, in cui Beach si rivela degno epigono del migliore Vito Bratta (White Lion). “Haunted Lullabye” dal chorus strano ma efficace e “In Your Honor”, una ballad acustica che richiama vagamente i Beatles, terminano splendidamente questo lavoro segnando un grande ritorno, un imperdibile cd sia per chi, come me, li apprezza da sempre sia per chi non li conosce ancora.