Quando i Days Before Tomorrow pensano al concetto di progressive rock, senza dubbio intendono dire Porcupine Tree, Dream Theater e Marillion. Però buona parte degli appassionati potrebbe invece rispondere a suon di Yes, Rush, Pink Floyd, Genesis, Kansas e Styx. La dichiarata missione dei DBT origina proprio nel bel mezzo di questo dibattito, nel tentativo olistico di riunire le due scuole di pensiero in un unico credo. In definitiva, un cenno al passato con il suono di domani. Almeno nelle intenzioni scritte è così.
La band proviene dal Wayne, New Jersey ed il primo full-length The Sky Is Falling dà l’impressione di essere un vero e proprio passo definitivo verso il professionismo. Un produttore rinomato (e costoso) come Ron Nevison (Led Zeppelin, The Who, Rolling Stones, Europe, Kiss), una storia fantascientifica a corredo del più classico dei concept album (con tanto di artwork a tema e didascalie) ed un tocco di ecologia che non guasta mai per la realizzazione della confezione digipack del disco. Tutto perfetto, direi. Peccato che non si possa dire lo stesso della musica che il combo americano propone ai suoi potenziali seguaci. Si tratta di un rock melodico dalle venature progressive, fortemente propenso alla melodia di facile presa e sempre, volutamente, parco di arzigogolature strumentali e compositive. Insomma un sound solo vagamente legato al “vero” progressive e solo lontanamente assimilabile ai riferimenti dichiarati in apertura. Peccato, perché in realtà la band di Eric Klein a Scott Kahn dimostra di saper scrivere buona musica e produce arrangiamenti di tutto rispetto, lasciando ben sperare sia quando indurisce i suoi tratti e si avvicina al metal di Images And Words (Last Song), sia nei momenti più hard rock oriented (Can’t Go Back, Can’t Do Anything). E dire che la varietà non manca e c’è spazio anche per il folk acustico di In The Air, ma i riff sono sempre gli stessi (o almeno così appaiono) e mancano idee che siano davvero originali e vincenti. La musica scorre senza difficoltà e la band dimostra un eccellente vigore esecutivo associato ad una perizia tecnica di buon livello. Ma ciò che non convince (oltre ai riff) sono proprio le linee vocali, le quali si mantengono quasi esclusivamente sui medesimi registri, risultando perciò ripetitive, scialbe ed a tratti fastidiose nel loro incedere scontato.
Non si parla di intonazione, ma di scelte. E forse queste ultime pesano molto di più che tutto il resto sull’umile giudizio finale di un lavoro potenzialmente eccellente ma che fallisce il tiro su più fronti. Attendiamo con fiducia un ritorno e con altrettanta fiducia auspichiamo la venuta di un sound finalmente originale, autonomo, figlio del solo talento. Se questo saprà manifestarsi. Per ora una sufficienza politica, a supporto delle buone intenzioni e dell’underground di qualità.