Partiamo da un luogo e una data: Revenge Of True Metal Festival, Rovereto,11 luglio 2009. Se per il sottoscritto quello dei britannici Tank è uno dei ritorni più chiaccherati dell’anno, buona parte del merito è di quel concerto. La band britannica si presentò all’appuntamento con una line up nuova di zecca (la stessa che avrebbe poi dato vita a questo disco), deliziando il pubblico trentino con una performance di rara bellezza; proprio in quell’occasione venne presentata “Phoenix Rising”, memorabile zuccherino in salsa NWOBHM di un disco allora ancora in fase embrionale, uno di quei pezzi da appuntamento con la storia che riportano l’orologio indietro di trent’anni. “Se solo i Maiden fossero in grado di comporre un pezzo con un tale ritorno di chitarre!” è stato il mio primo pensiero e, in tutta probabilità, quello di buona parte del pubblico. Titolo e melodia si stamparono subito nella mia mente fino ad oggi, in cui finalmente l’attesissimo comeback fa la sua apparizione sugli scaffali.
Quanti e quali possano essere i motivi che spingono a rispolverare un monicker più o meno glorioso è un quesito che lascio volentieri ad altri: impreziosito dalla presenza di due pezzi da novanta quali Doogie White e il bassista Bob Dale (Bruce Dickinson), il come back dei Tank non poteva certo passare inosservato. Il fatto che “War Machine” suoni così poco Tank non è un fulmine a ciel sereno, considerate le premesse, e a conti fatti non è neanche un fatto negativo. Del ruvido speed n’roll degli esordi infatti non vi è praticamente più traccia, accantonato in favore di un classico metal di matrice saxoniana. La direzione intrapresa dalla band appare chiara già dallo sferragliante riff iniziale di “Judgement Day”, accentuata dall’evidente somiglianza dell’ex Rainbow con il timbro di Byff Byford. Ci sono solidi midtempo come “Feast Of The Devil” e “World Without Pity” che si lasciano letteralmente cantare da soli, mentre pezzi come “Great Expectations”, “The Last Laugh” e la già citata “Phoenix Rising”, costituiscono la prima linea di un’ipotetico assalto all’arma bianca fra fughe chitarristiche e anthem mozzafiato. Stupisce e per certi versi commuove la toccante “After All”, una splendida ballad caratterizzata da un finale in crescendo con un solo tutto da ascoltare.
“War Machine” è musicalmente distante anni luce dai Tank di Algy Ward, ma poco importa: la band compensa la perdita di irruenza tuffandosi in sonorità di indubbio fascino, mantenendo comunque intatte la sincerità e la genuinità che l’hanno sempre contraddistinta. Il risultato sono cinquanta minuti di splendido heavy metal nella sua forma più accattivante, una macchina da guerra ruggente e oliata più che mai. Non sempre occorre gridare al capolavoro per incoraggiare l’acquisto di un disco e mai come in questo caso la frase calza a pennello. Bentornati!

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