Dopo la morte dello storico cantante e membro fondatore dei progster Shadow Gallery (Mike Baker), molti erano i punti interrogativi sul futuro della band e diverse voci più o meno ufficiali si facevano sentire… In seguito, dal polistrumentista Gary Werkamp, nelle veci di rappresentante del gruppo, si viene a sapere che gli Shadow Gallery hanno intenzione di continuare la propria carriera musicale. Inizialmente si pensava a cantanti-ospite (cosa che poi in parte è avvenuta) per la registrazione di questo nuovo disco, che era già stato concepito prima della scomparsa di Baker, ma successivamente la band annuncia l’entrata in gruppo di un nuovo membro, lo sconosciuto cantante Brian Ashland.
Il disco si apre con l’imponente With Honor, 10 minuti di intrecci melodici, cori maestosi, cambi di atmosfera nel pieno stile del gruppo. Ottima, al solito, la prova degli strumentisti mentre si rimane piacevolmente sorpresi dalla timbrica di Ashland che a tratti richiama il compianto predecessore e, in parte, “sua maestà” Geoff Tate. Si cambia completamente registro (e cantante) con la successiva Venon, un pezzo insolitamente duro per gli standard del gruppo, e che annovera, come lead singer, Clay Burton (Suspyre, Forevers Edge) perfettamente adatto al suono più ruvido e pensante del pezzo. Pain invece parte con un intro malinconico, tra arpeggi e tastiere (con la voce di Ashland che ricorda davvero il Tate più intimistico di “Promised Land”) per poi alternare parti decisamente più elettriche e pesanti: si può affermare che questo “Digital Ghosts” sia probabilmente la produzione più heavy del gruppo statunitense (specie se paragonato al precedente “Room V”). Gold Dust è invece il brano più accessibile del disco e, non a caso, scelto come video. Melodie orientaleggianti e un coro più immediato caratterizzano il pezzo; di nuovo ottima la prestazione di Ashland mentre superlativi si rivelano gli intermezzi strumentali ad opera di Brendt Allman (chitarra) e del guest Vivien Lalu (tastiere). Ralf Scheepers (Primal Fear, ex Gammaray) è invece il lead singer di Strong, canzone particolare dal flavor quasi blues pur mantenendo la (nuova) matrice heavy che accompagna l’intero disco. Immancabili i richiami dei cori à-la Queen in Digital Ghost alternati a stacchi quasi jazzistici, mentre nella conclusiva Haunted le atmosfere tornano a farsi più rilassate e sognanti: non è difficile intuire che questo pezzo sia dedicato proprio al compianto cantante.
In definitiva ci troviamo di fronte a un lavoro pomposo, articolato e pretenzioso come nella migliore tradizione prog metal, un album che, nonostante l’assenza di Baker, non teme confronti con gli illustri predecessori “Carved In Stone” e “Tyranny”. Se siete, come il sottoscritto, da sempre fans della band non ne rimarrete delusi, mentre, per chi non conoscesse ancora gli Shadow Gallery, questo “Digital Ghosts” si rivela sicuramente un ottimo biglietto da visita.
Nota sulle edizioni: la stampa in digipack a tiratura limitata europea contiene ben quattro bonus-track di cui due brani interpretati da Baker, mentre l’edizione giapponese contiene l’inedito Stingray cantato da D.C. Cooper (Silent Force, ex Royal Hunt).