Presentati, piuttosto “audacemente”, dai comunicati di presentazione come una formazione dedita ad apocalyptc metal, i tre protagonisti del progetto Phaze I giungono al proprio debutto discografico con l’esperienza di chi impugna lo strumento da tempo ed il coraggio di chi sa di poterci “provare”.

Nata dall’amicizia, artistica e non, dei fratelli Potvin (Lyzanxia) con Dirk Verbeuren (Soilwork, Scarve), la formazione francese si presenta al pubblico con un album appetibile da molteplici palati, retto su scelte globalmente apprezzabili e personali per come sono state accoppiate nelle otto composizioni presenti.

Una volta che il supporto ottico comincia a macinare i primi giri, infatti, il significato della dicitura “apocalyptic” risulta immediatamente chiaro. La miscela plasmata dal terzetto transalpino pesca a piene mani dal panorama estremo moderno tentando, con l’aiuto di una produzione perfetta, di prediligere la trasmissione di dissonanza, freddezza spietata e chaos sonoro. Immediato, necessario ma non sufficiente l’accostamento a band che su queste caratteristiche hanno costruito una gloriosa carriera come Fear Factory di qualche tempo fa e SYL. Una base fondamentalmente accostabile al thrash spesso etichettato come “cyber”, dunque, che, grazie all’utilizzo di un drumming sempre obliquo, voci sofferte, growls distanti, screams sempre filtrati ed atmosfere estranianti, riesce a risultare al contempo accattivante ma imprevedibile. I brani, dopo aver superato l’assorbimento iniziale, scorrono via veloci, togliendo il velo a particolari sempre più preziosi e brillanti. E’ così che, dal tronco principale già citato, emergono le influenze e le sottigliezze che fanno di “Phaze I” un prodotto unico. Con un’integrità da veterani quali sono, i tre musicisti offrono brani vari, caratterizzati da un songwriting mai ripetitivo ma comunque identificabile, in cui, il marchio dell’espressività drammatica, minacciosa e quasi aliena, non riscontrabile sull’immediato, si pone come indiscutibile simbolo. E’ così che atmosfere sulfuree rubate al black-death più veloce e tirato, un modus operandi violentemente distaccato paragonabile a quello degli Hypocrisy più ragionati ed il già citato gusto per una proposta “estranea”, contribuiscono a formare un lavoro che piace e si lascia scoprire. Mancano la meraviglia, l’originalità vera e l’omogeneità disarmante del capolavoro ma il risultato si mantiene costantemente ottimo, godibile e meritevole d’attenzione.

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