Aver conosciuto ed apprezzato i Kamelot già in tempi non sospetti costituisce per me un piccolissimo motivo di vanto. Ero tempo addietro affascinato da sonorità epiche e magniloquenti, e amavo, nel garbato classic metal del gruppo floridano, la fusione di potenza, melodia ed epicità che non hanno mai cessato di affinare. I miei gusti sono ora molto cambiati, ma i Kamelot vedono immutato il loro indice di gradimento presso di me. Quel che più conta, però, è che abbiano finalmente ricevuto l’attenzione che già prima avrebbero, a mio modesto avviso, ampiamente meritato.
A metà degli anni ’90, con l’uscita di ‘Eternity’, i nostri attirarono la curiosità della stampa a causa della voce del loro ex cantante, Mark Vanderbilt, la cui somiglianza a quella dell’enigmatico Midnight (Crimson Glory) era davvero sorprendente. Un disco di classic metal molto ben confezionato, anche se ancora poco originale. Dopo di ciò i nostri piombano nell’oblio. Anche il validissimo ‘Dominion’ passa quasi sotto silenzio, pur segnando un deciso passo avanti nella composizione e nel lavorìo melodico. E’ solo dopo l’uscita dalla formazione di Vanderbilt e del batterista Richard Warner che si apre il nuovo corso della loro vita artistica: dagli sciolti Conception arriva il cantante norvegese Roy Khan, e dietro le pelli si siede il valido Casey Grillo; esce così, nel 1997, ‘Siège Perilous’. Il talento espressivo di Khan svecchia notevolmente il sound, assieme alla diversa produzione, sempre affidata ai gloriosi Morrisound Studios di Tampa, ma stavolta molto più calda e avvolgente. Il risultato è davvero ispirato e ‘genuino’, con Thom Youngblood che ancora una volta dimostra il suo superiore talento compositivo e il suo stile controllato, che mai indulge al virtuosismo. Ottimo come sempre il lavoro del fido Glenn Barry al basso e del simpatico David Pavlicko alle tastiere, degno complemento di un’amalgama unica nel suo genere.
Dopo il tour europeo del 1998 da co-headliners con gli Elegy, al termine del quale toccano anche l’Italia, il ‘Re Mida del Metal’, Sascha Paeth, si accorge di loro, e li convoca in quel di Wolfsburg a registrare ‘The Fourth Legacy’, terminato nel Settembre dello scorso anno.

Ora che il prodotto arriva alle mie orecchie, non posso far altro che spellarmi le mani nell’applaudire questo grande lavoro d’èquipe: già, perchè il ruolo di Sascha e Miro, come sempre con le band della loro scuderia, va ben al di là degli aspetti tecnici attinenti alla resa sonora: costoro dispiegano il loro entourage, composto anzitutto degli onnipresenti membri degli Heavens Gate – fra cui lo stesso Sascha quale chitarrista addizionale -, e da Miro in persona che si occupa per intero del lavoro tastieristico e degli arrangiamenti orchestrali (e qui s’innesta un interrogativo: che ne è stato di Dave Pavlicko?). Non basta? Va bene, aggiungiamo un paio di voci femminili, una sezione d’archi, un flauto e percussioni varie, e a questo punto nessuno può avere dubbi in merito alla completezza del materiale proposto. Inoltre tutti gli elementi risultano perfettamente miscelati, attraverso la consueta, maniacale cura degli arrangiamenti, dando vita a brani solidi, privi di cedimenti. Si alternano, in un fluire avvincente, pezzi veloci e muscolari, che pure lasciano spazio ad intermezzi soffusi, ad altri più ‘meditativi’, ballate toccanti anche grazie al carisma di Khan. Melodie gradevoli e impreziosimenti progressivi fanno il resto, inchiodandovi davanti a un’imperativo categorico: ascoltate ‘The Fourth Legacy’, a qualunque ‘parrocchia’ voi apparteniate. Vogliate contribuire alla definitiva affermazione di questa bellissima realtà del metal dei giorni nostri.

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