“Out of Order”, terzo solista del chitarrista olandese Joop Wolters, è un eccellente esempio di come un disco di chitarra strumentale non dovrebbe essere.
Un’ora di musica suddivisa in ben sedici capitoli, che somiglia molto ad un patchwork di assoli prelevati da altre composizioni, allungati all’estremo ed infine messi in sequenza.
Praticamente nessuno dei pezzi di questo album presenta la benché minima parvenza di “struttura canzone”, non vi sono melodie portanti, sono assenti fraseggi memorizzabili, l’unico elemento in qualche modo orientativo per l’ascoltatore è la costante, vorticosa velocità di esecuzione.
Nascondersi dietro l’etichetta di “prog” è pretestuoso ed inutile: una cosa è il progressive, un’altra sono una serie di progressioni slegate ed accompagnate da assoli che paiono usciti da una jam session senza né capo né coda.
La pulizia e la velocità di Wolters sono fuori discussione, ma a livello di espressività e personalità siamo prossimi allo zero: anche dopo diversi ascolti appare difficile identificare uno stile proprio del chitarrista, che anche in quanto ad arrangiamenti appare piuttosto monodimensionale.
Persino gli occasionali rallentamenti e le parti di pulito finiscono puntualmente e rapidamente per perdersi in un vorticoso e velocissimo assolo privo di qualsiasi melodia e pathos: un errore che generalmente è tipico dei chitarristi principianti e che lascia invero piuttosto interdetti.
Wolters si diletta ora nel metal neoclassico (soprattutto), ora sconfinando nella fusion, con una punta di blues e persino un breve flamenco: un mix che in altre dosi e con una sensibilità diversa può dimostrarsi estremamente vincente (chi ha detto Vinnie Moore?), ma che in questo caso finisce inevitabilmente per generare confusione e tedio.
Dopo neanche mezz’ora vi ritroverete sicuramente persi in un ascolto sconclusionato e privo di reali punti di interesse (nel 2007 importa ancora a qualcuno sentire pretenziose successioni di scale a velocità esasperata, peraltro senza nemmeno particolari altri virtuosismi?), il che sancisce perentoriamente la longevità pressoché nulla di questo album.
Ad onor del vero, esistono alcuni che in fondo si lasciano ascoltare (casualmente, quelli che presentano i maggiori appigli melodici), come ad esempio “When Little Angels”, “Aragon” oppure “Tied Knots”, ma questo non è decisamente sufficiente a giustificare l’acquisto del disco, peraltro non valorizzato dalla piuttosto anemica produzione.
Per sperare di far breccia in un mercato tanto saturo come quello della chitarra strumentale, Wolters dovrà per forza sforzarsi in futuro di comporre brani maggiormente focalizzati e personali, evitando gli orrori (il flamenco-shred di “Harmonic Spheres” è da fucilazione), le prolissità e l’assenza di direzione che permeano la quasi totalità di questo lavoro.