Provengono dall’Arizona e, figli di una notorietà da web sensation, giungono al terzo full-lenght, in quattro anni scarsi di carriera, su una label prestigiosa come la Ferret. Bravi, fortunati, raccomandati? Domande e dubbi sono lecite dopo aver ascoltato la bella favola dei Greeley Estates ma, anche e soprattutto, dopo averne saggiato la consistenza artistica non proprio conforme (a livello di contenuti) alla tradizione della già citata etichetta.
Sempre godibilissimi, questi ragazzi statunitensi cavalcano, senza maschere, né mezzi termini, l’ondata metalcore più ruffiana e cosiddetta commerciale, fornendo una prova mai realmente malvagia o da buttare. La formula utilizzata all’interno dei tredici brani forniti è, dunqua, quella fondata su un flavour accattivante sia nel propinare le “aggressive” strofe impregnate di sottile groove, sia nel cullare con i malinconici e mielosi ritornelli rubati dalla tradizione screamo. Fantasia zero, sforzo compositivo ancora meno per un lavoro che prova a bilanciare queste pesanti mancanze con un buon dinamismo sonoro e lo sfacciato tentativo di piacere a prima vista. Il risultato di tutto ciò è, come prevedibile, un platter che si presenta fascinoso per poi accattorciarsi su sé stesso quando arriva il momento di estrarre dal cilindro consistenza e dati di fatto. E’ così che quel pericoloso nemico rappresentato dalla noia, sempre pericolosa e dietro l’angolo in casi come questo, sembra sempre essere in agguato su un’opera dalla durata eccessiva per lo stretto bacino di temi mostrati. Una produzione, al solito, strepitosa ad opera di un “tale” Cory Spotts (Job For A Cowboy) ed un buon gusto melodico non possono essere armi per risollevare un lavoro dalla bellezza sterile e poco duratura. Non da Ferret.