Mi ritrovo finalmente a parlare di questa ultima fatica di Daniele Liverani (già noto agli appassionati di metal prog per la sua militanza come tastierista negli Empty Tremor) ma, come potrete già intuire guardando il voto, il Natale non mi ha addolcito poi molto e l’idea che mi sono fatto di questo disco è un po’ critica e fuori dal coro rispetto alle ottime recensioni lette in giro.
Per carità, buoni spunti ce ne sono in Genius ma risultano, in mia opinione, troppo annacquati in canzoni interminabili.. In più un punto dolente del disco sono le linee vocali (guarda caso il cast sarebbe dovuto essere la punta di diamante della produzione targata Frontiers), che raramente mi hanno convinto e che mostrano cantanti “appiccicati” sulla musica e poco inseriti in essa (nonostante i grandi nomi), facendoci sognare le vibranti interpretazioni di Glenn Hughes e Joe Lynn Turner sul Nostradamus di Kotzev.
Più che altro sono anche convinto che le rock opera siano un genere troppo inflazionato al momento e poco innovativo (visto che di polpettoni magna carta e compagnia bella ne abbiamo sorbiti sin troppi!). Tornando al nostro Liverani, non posso però non encomiare lo sforzo e la fatica di comporre un opera così lunga completamente da solo, suonando ben tre strumenti (basso, chitarra e tastiera) e coordinando le attività di tanti cantanti: d’altra parte, però, mancano le differenti sfumature che una band vera e propria può dare.
Passando ad analizzare i brani, credo che i più azzeccati siano senz’altro “All Of Your Acts” e “Dreams” (che vedono alla voce rispettivamente Joe Vana e Mark Boals), cantati discretamente, dotati di bei ritornelli (specialmente Dreams) e molto godibili..
Durante l’ascolto si sentono molto facilmente richiami ai Dream Theater, ma, stranamente, anche ai Van Halen e ai Symphony X: degno di nota è il lavoro alla batteria del giovanissimo Dario Ciccioni, che fa trasparire la passione per il grande Neil Peart e il suo “figlio degenere” Mike Portnoy.
Molte linee di chitarra e tastiera sono interessante (specialmente gli intro: tutti quanti sono interessanti e belli) ma alla lunga si perdono in troppe ripetizioni, che rendono le canzoni inutilmente lunghe e prolisse. Per il resto, il disco scorre senza infamia e senza lode, calcando orme ormai fin troppo percorse.
Ve lo consiglio solo se non potete fare a meno di sentire i lavori di Trent Gardner, altrimenti potreste pure sorvolare (e magari date un’occhiata agli Empty Tremor, ben più degni di attenzione)!

Matteo “Allanon” Borselli

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