Riecco sulle scene discografiche Jack Frost con il suo secondo disco solista; disco che per l’occasione si avvale di numerosi ospiti e amici, tra i quali spiccano i suoi compagni nei Seven Witches.
C’è da notare la grande quantità di cantanti presenti come ad esempio Ted Poley, Alan Tecchio, Paul Shortino in modo da poter adattare le voci a seconda della melodia o dell’aggressività del brano.

I dieci brani, più rifacimento di “Passage To The Other Side” dell’omonimo album del suo gruppo principale in chiave classicheggiante, sono tutti piuttosto diretti e senza grosse pretese. Il sound è quello tanto caro a Frost; il metal degli anni ottanta è la sua passione e ci tiene a ribadirlo con fermezza pur scadendo più e più volte nel banale e già sentito.
Ma come spesso accade più che scopiazzare la volontà è quella di omaggiare i propri gruppi preferiti dell’adolescenza. Frost non è un artista originale; è piuttosto un artista onesto con sè stesso e conscio dei propri limiti compositivi. Out In The Cold alterna quindi fasi brillanti a fasi piuttosto scadenti e poco interessanti.
Ho trovato particolarmente gustose e riuscite “Covered In Blood” con quel suo sapore priestiano che scorre da sempre nelle vene di Frost supportato da un ottimo Jeff Martin, la già citata “Passage To The Classical Side” (più adatta per i fan dei Seven Witches che potranno apprezzarne maggiormente il rifacimento), la thasheggiante “Hell Or High Water” cantata dal buon Alan Tecchio, la rockeggiante “Out In The Cold”.
Tra i brani su cui si poteva lavorare di più segnalo “Sign Of The Gipsy Queen” che trova il suo punto di forza nel ritornello, pur risultando nel complesso piuttosto banalotta.

Frost sicuramente riversa nei suoi progetti solisti alcune soluzioni meno adatte (forse) ai Seven Witches come la grintosa e rockettara “Peter And Me”, brano che stona parecchio rispetto agli altri.
In effetti questo Out In The Cold contiene canzoni anche parecchio distanti tra di loro come genere, passando dal rock più spicciolo e diretto, a un heavy di chiara matrice ottantiana, a soluzioni più thasheggianti, a rifacimenti di vecchi brani in versione orchestrale.
Questa eterogeneità di stili di conseguenza mina non poco il giudizio globale. L’ascoltatore non riesce a sentir proprio questo lavoro che non è diretto a un pubblico particolare sembrando più una raccolta mal riuscita in tal senso.
In linea di massima i singoli brani presi singolarmente non sono male, alcuni meglio altri peggio.
Un album senza grosse pretese.

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