La critica deve saper fare il proprio lavoro, ovvero quello di criticare e come nell’accezione più stereotipata del termine, lo fa in modo arido e poco obiettivo, in modo negativo, soprattutto quando si parla di arte, l’attività più intima e soggettiva. Questo è stato uno di quei numerosi casi dove la critica il proprio “sporco” lavoro l’ha saputo fare bene, giudicando in maniera non certamente troppo positiva l’album di cui sto per andare a recensire, o meglio… Vi andrò a raccontare una storia dai tratti personali, una sorta di recensione personale, in quanto questo disco , più precisamente questo capolavoro dei Led Zeppelin, per me è qualcosa di assai prezioso, qualcosa che se non carpito nelle sfumature, rischia di passare esattamente per il suo contrario. “ Presence”è una leggenda tanto quanto lo sono stati i suoi padri e le leggende vanno raccontate. Così decido di recensirlo in maniera alternativa e stra-ordinaria (fuori dall’ordinario), come gli aggettivi che hanno da sempre caratterizzato questa band, soprattutto per quell’epoca, a noi così lontana, proiettandomi a quel marzo del 1976, come se mi trovassi proprio lì, in quell’anno di uscita, in quegli anni ricchi di idee e di quel rock talmente tanto radicato nell’anima dei “maledetti”, o forse semplicemente di coloro che avevano capito che andare fuori dalle righe significava semplicemente liberarsi. Chi meglio dei Led Zeppelin permetteva di ottenere un tantra con se stessi, una masturbazione uditiva che passava dalla cassa acustica per dipanarsi nei più svariati arti e nei svariati sistemi dentro e fuori dal corpo?..
1976. Mi trovo in un negozio di dischi. Quale occasione migliore per una fan sfegatata dei Led Zeppelin acquistare l’ennesimo gioiello? Si, ok Robert e Jimmy hanno avuto qualche problema, ma chi è irreprensibile tra noi, soprattutto in questi anni? Non mi hanno mai delusa, è già da tempo che producono dipendenza alle mie orecchie. E’ già da tempo che se non li ascolto almeno una volta al giorno non riesco a stare bene, non riesco a farne a meno. Quindi provvedo all’acquisto. E così mi ritrovo tra le mani questo gioiello. Una qualsiasi femmina impazzirebbe per qualcosa che luccica , che sia prezioso solo per il valore economico che possiede. Io invece impazzisco per questo acquisto, che per me, vale più di mille altri tesori. Arrivo a casa, mi accomodo sulla poltrona e metto su il disco. Le voci sparse in giro non lo acclamano come un capolavoro, ma si sa la critica ipocrita e bigotta , solo per il fatto che Page si è dato alle droghe pesanti, fa storie lunghe e complesse sui personaggi e ci deve far andare di mezzo pure la musica, ma ciò non mi influenza minimamente, mantengo ancora la mia filosofia ribelle, tanto quanto la musica di tutti i dischi che mi riempiono la camera : machiavellisticamente, in tal caso, penso e ritengo che il fine giustifica i mezzi e se i mezzi sono illegali per creare qualcosa di legale, o più precisamente qualcosa di stra-ordinario, perché porsi dei problemi?. Ed ecco che inizia. Inizia quello che volevo e che tutti dovrebbero ascoltare.
“Achille’s last Stand”. Guardo la track list e questo è il primo titolo; credetemi per una come me, per tutti quelli come me, nei confronti del suo gruppo preferito aprire un album ed ascoltarlo è come possedere una matrioska, o matrice in questo caso dei sensi e delle aspettative, che contiene altre piccole parti incastrate le une dentro alle altre, tutte da scoprire.
Si apre un piccolo pezzo con la chitarra di Page e subito dopo attacca una cavalcata fantastica, tagliente, epica , qualcosa di non esprimibile. Qualcosa di inaudito. Qualcosa che si va a fondere con la voce superbamente acuta di Plant, con i suoi vocalizzi sensuali, un orgasmo questo pezzo, un vero e proprio orgasmo. Quando dicono che per la buona riuscita di una canzone la voce deve fare l’amore con tutti gli altri strumenti è proprio vero . E chi meglio di Plant e co. riescono a farlo? E’ un colpo al cuore. Una chitarra acrobatica pazzesca, così talmente accattivante e diabolica che credo che in nessun altro pezzo loro l’abbia mai sentita così. Io credo proprio che un giorno e non molto lontano qualcuno titolerà qualcosa a loro come “Martelli degli Dei”… o probabilmente qualcuno che lo ha pensato già esiste.
“For your Life”. Un ritmo funk-blues, la batteria di Bonzo che va quasi a rallentatore rispetto al pezzo precedente da tregua alle mie emozioni sempre più forti. Sono immersa in uno spogliarello, sì sono esattamente immersa in uno spogliarello. Non è un caso che quando ascolti i Led Zeppelin ci vogliano pochi secondi a togliersi i vestiti ed è quello che esattamente questa canzone mi trasmette e non credo sia un caso che i L.Z hanno fatto e faranno crescere demograficamente la popolazione… Si lascia spazio ad un basso più deciso di Jones, quasi ipnotizzante, che accompagna riff e l’assolo di Page sublimando e confermando ancora una volta il suo strumento ed esaltando ancora una volta la storia di questo rock a colpi vibrati di dive bombs.
“Royal Orleans”: funky a tratti psichedelico, un ritmo nero, che ricorda le lontane zone di New Orleans. Un timbro solare e assolo non troppo marcato, basso e batteria perfettamente coordinati. Pause, per poi riprendere. Forse non è di certo eccezionale questa canzone, ma mi sto rollando una “sigaretta modificata” e devo dire che intermezza e spezza questo album con un tocco di leggerezza, leggera quasi quanto la mia testa quando comincerò a fumare. “Be careful how you choose it” recita il testo…
Io continuo ciò che sto facendo ed inizia il pezzo successivo. Ironia della sorte il testo recita : “Oh, it’s nobody’s fault but mine. That monkey on my back, The ma-ma-ma-ma-monkey On my back, back, back, back.” Sono coincidenze anche in questo caso? I Led Zeppelin probabilmente sanno già che mi sta per salire la “scimmia”, forse sono davvero così magici come si sussurra.. Sono immersa in questo album, dai toni estranei ai lavori precedenti, da colori molto più intimi, disequilibrati, dai colori che non hanno cromaticità definita, perché questo album per me è occulto, il più occulto di tutti e per me l’occulto non ha colore. E quale meglio di questo album esprime occultismo e mistero, per non parlare della copertina? Ma ora penso a concentrarmi al suono. Nobody’s fault but mine è ormai cominciata e già l’attacco quasi arabeggiante di Page la fa apparire come un capolavoro hard rock, per poi attaccare con una batteria decisa e corposa ed ecco che inizia un intercalare di pause , cori, riff, ripetitivi e ipnotici per distaccare il tutto con l’armonica che fa svegliare e riprendere in questa orgia sonora. Proseguo a Candy Store Rock. Wow, è come entrare dentro un locale, quelli che hanno quei juke box enormi e dove le serate le passi così a sentire la musica di Elvis.. Completa atmosfera del re del rock ‘n roll, ma il fascino e la magia che iniettano i Led all’interno dell’atmosfera che riesco a respirare, anche solo che ascoltando questo pezzo, è qualcosa lontana dall’umano: è hard rock and roll. Che fossero degli alchimisti della musica non era certo una novità, ma qui si stanno battendo davvero. Hots for Nowhere, mi fa “uscire dal locale fantastico” in cui mi ero immersa e mi fa immergere in una strada di notte: ritmo funky ancora, riprendendo Royal orleans. E’ un suono libero e selvaggio, che “se ne frega” e mi accompagna per questa strada che sto attraversando, attraverso luci notturne, andandomi magari a sbronzare in qualche luogo disparato e finendo chissà in quale motel . E così salgo in una stanza di quel motel immaginato, ed inizia la fine di questo spettacolo, inizia Tea For One. Mi appoggio sul letto e inizia il mio viaggio, per me stessa: 9,24 minuti di puro godimento, di collasso nell’universo. Un ritmo lento, viscerale, sensuale, erotico. Un ritmo che ti farebbe sprofondare nel mare anche più torbido e sporco del mondo, perché questo blues è sporco, è tremendamente malizioso e accattivante, forse la più accattivante mai ascoltata, forse anche rispetto a “Since i’ve been Lovin’ You”.
E così finisce questo disco, finisce il mio stato extrasensoriale, finisce il mio ‘ermafroditismo’, perché quando ascolti la musica sei maschio e sei femmina, sei su un altro pianeta e loro, solo loro riescono a farmi sentire tale. Sulle ginocchia ho la copertina. La guardo bene. Già sapevo dai suoni, che questo album fosse davvero occulto, quello più misterioso di tutti e l’oggetto dalla strana ed inquietante forma, al centro del tavolo , sulla parte anteriore della copertina, mi fa confermare ciò. Cosa più semplice e paurosa di quell’ oggetto non l’ho mai vista. Come se fosse un totem in miniatura, come se fosse un oggetto proibito che compare davanti a una famigliola felice o davanti alla maestra con i suoi alunni. Un oggetto oscuro che compare davanti all’ innocenza dei bambini è davvero pauroso e fa riflettere, perché per di più non ha senso in quel momento e in quel luogo; è qualcosa che disturba la logica di visuale e di schema: è la beat generation di una società statica, è la “disdetta” di quello che erano sempre state le classiche sonorità zeppeliniane; è un oggetto non identificato, ma presente, è il pericolo, è la morte. La morte che si pone nelle situazioni più normali come la famiglia e l’istruzione, la società e la normalità: nelle regole. E’ la PRESENZA, di qualcosa di sconosciuto da conoscere e da studiare: forse non serve neppure sforzarsi troppo interpretare questa enigmatica figura, ma la cosa fondamentale è che è una presenza oscura e indefinita, un trofeo di trionfo dei sensi, una presenza aliena all’ interno di un qualcosa di normale, è stra-ordinario perché fuori da quell’ ordinario in cui tutti hanno conosciuto i Led, è il loro marchio di conferma nel mondo, è l’album forse più importante per la loro storia ed è anche uno tra i più importanti per la storia del rock: E’ Presence.