Una discreta transizione mediatica: definizione sintetica, sbrigativa ma calzante che, riferendosi al neonato in casa Korn con un approccio oggettivo, ne descrive l’andamento medio con quell’imparzialità che (a ragione) tende sempre più a venir meno quando, nei circuiti musicali di nicchia, si descrive una band da mainstream. Categoria esterna ad ogni discorso prettamente musicale nella quale, per (s)fortuna, meriti o destino si viene catapultati senza possibilità di disobbedire alle sue rigide regole, quella in questione ha, ormai da tempo, ingurgitato anche le abili menti della seminale band statunitense.
Per quanto detto, approcciare all’esame di un disco dei Korn oggi con l’ottusa pretesa di prescindere dal rigido contesto in cui la band è inserita risulterebbe alquanto sterile e demenziale restituendo nient’altro che sputi di prevedibile retorica forzatamente ostile.
Miscelando in maniera non impari critica e rispetto, il prodotto dei Korn può essere visto come nient’altro che una palese testimonianza di come, con intelligenza e capacità, ci si possa, definitivamente, arrendere alle forzature mediatiche. Orfani del prezioso contributo della sette-corde di Head ciò che rimane della vera formazione tenta, con risultati che variano ampiamente a seconda del target di pubblico, di tramutare una carenza in virtù apportando qualche novità al sound che, a dispetto di quanto se ne dirà, non può dirsi evoluto ma soltanto dimagrito. Il ruolo della chitarra è riconoscibile ma perde importanza e tono rispetto al passato a causa di entrate spesso di contorno, sibilline ed intermittenti; la sezione ritmica è ridotta all’osso ed il contributo delle pelli è a dir poco minimo; la voce di Davis recita alla perfezione il ruolo di trademark indistruttibile farcito da qualche intervento vocale di stampo mansoniano.
In un quadro generale del genere è facile immaginare a dei buchi compositivi che una band del calibro di quella in questione non poteva esimersi dal riempire con scelte mai stonate ma evidentemente di mestiere: ed ecco spiegato l’ingresso d’influenze dal sapore industriale. Stroncando sul nascere l’equivalente banalità del “Non sono più quelli di una volta” o dell’ “Hanno reinventato il genere” c’è, volenti o nolenti, da sottolineare una capacità della band di non farsi mai dispiacere in tutto l’arco del disco dando spazio, su un tappeto di suoni da programma e “sprazzi di genio da massa”, a livelli di dignità che, a differenza dei plagi in serie, mantengono sempre livelli apprezzabili.
Che “Life Is Peachy” sia distante anni luce da tutti i punti di vista, che l’ennesima corsa alla copia di un nuovo lavoro griffato Korn sia già avviata e che questi ragazzi siano bravissimi nel fare il proprio mestiere (sottolineato mestiere) sono banali dati di fatto; anche questa volta il cartellino è, come previsto, rispettabilmente marcato. Delusi? Scontenti? Sorpresi? Superfluo, impossibile arrestare la giostra dell’industria Korn che continuerà, imperterrita, a vendere biglietti, lavorare e girare macinando e distruggendo i giudizi di chiunque pensi, parli e scriva (nel bene o male) di essa.