Timore che i Candlemass diventassero Solitude Aeternus; timore, dopo la forzata reunion ed il canonico disco omonimo, di dover dimenticare genialità e splendore; timore. Giustificato o meno, aleggiava, deciso ed imponente, dietro l’uscita di questo ‘Kings Of The Grey Islands’, crocevia tra la strada della band svedese e quella di un Marcolin ottimamente archiviato grazie al bravo Robert Lowe (già, appunto, Solitude Aeternus).
Il nuovo singer, inevitabile novità nel sound dei padroni europei del doom, prende il suo importante posto con l’autorevolezza di chi ha esperienza ed è conscio di non dover sostituire un inarrivabile fenomeno. La sua voce emoziona, si integra a meraviglia con le linee tessute dagli strumenti, donando ai brani un’espressività ed una varietà completamente nuove nel sound dei nostri. Tutto grande, tutto bello ma, sempre e comunque, lontano da ciò che ci si potrebbe aspettare. I motivi? Non certo imputabili ad una dipartita, come già detto, abbondantemente colmata con guadagno, ma ad un piccolo grande intoppo nell’ingranaggio fondamentale della band. Leif Edling si “limita”, infatti, a timbrare per il proprio pubblico l’ennesimo prodotto estratto dal decalogo dell’inattaccabile musicista doom, rimanendo però lontano da quegli standard che lo hanno reso memorabile. Il disco parte molto bene, piace, meraviglia per la sua ipnotica ruvidità ed una aggressività meno scontata rispetto a quella che aveva aperto il disco precedente. Le atmosfere sulfuree, sempre riuscite, trasportano l’ascoltatore nel viaggio verso il “grigio” citato dal titolo; come da manuale. Tutto il resto è quel contorno maledettamente perfetto sospeso tra sensazioni negative, suoni grassi ed un incedere strisciante che conquista fin da subito. Un quadro esaltante e fascinoso che, superato l’entusiasmo iniziale, finisce per sciogliersi sotto i colpi di un songwriting inversamente proporzionale alle dosi ispirative richieste ad un gruppo di tale portata. Con lo scorrere della tracklist le sicurezze, insieme alla pazienza, finiscono per cedere il passo a quelle riproposizioni iterate di idee che distinguono i dischi dai capolavori. E questo è un buon disco. Ideale per intrattenere chi, alla vista in copertina di un teschio su sfondo nero, non si lascia distrarre dai bei ricordi che furono; per tutti gli altri qualche applauso e pochi giri nel lettore.

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