E meno male che il progetto Avantasia era da considerarsi bello e finito in tempi addietro. Con questo “The Mystery Of Time” siamo giunti ormai al sesto album del fortunato ensemble del factotum Tobias Sammet.
Al solito numerosissimi e importantissimi gli ospiti che da sempre caratterizzano le “metal opere” firmate Avantasia. Non è stavolta della partita l’istrionico Jorn Lande, “sostituto” degnamente da un altro grande della scena hard rock/metal che risponde al nome di Joe Lynn Turner (Rainbow, Deep Purple). Altra nota da evidenziare: il disco è un capitolo a sé. E per fortuna, aggiungo io, nessun singolo apripista con materiale inedito da ricercare poi su altri dischi.
Dopo le dovute, e in parte già note premesse, vediamo cosa ci riserva questo nuovo capitolo della saga di Sammet & co.
Musicalmente ci troviamo in perfetta scia con le ultime produzioni targate Avantasia, quelle da “The Scarecrow” in poi per intenderci, ovvero un suono che strizza compiacentemente l’occhio all’hard rock, miscelato con lo stile power tipico del buon Tobias. E questa volta una vera orchestra è intervenuta a supporto delle composizioni dell’album. Peccato che dopo un ascolto globale e reiterato di “The Mystery Of Time” si scopra come la tanto sbandierata orchestra rivesta praticamente un ruolo da comparsa, piuttosto marginale, con intro e outro adatti per creare un’atmosfera fiabesca, da colonna sonora burtoniana, ma che lasciano subito spazio (per poi sparire completamente) alla “parte elettrica”. Niente di fastidioso o improprio, quantomeno un’occasione sprecata per il potenziale che una vera orchestra può offrire.
L’opener Spectres mette in evidenza quanto detto pocanzi, con l’orchestra fa capolino a inizio e fine del pezzo e stop. Oppure in Black Orchid in cui gli archi si limitano ad accompagnare l’incedere cadenzato del brano, richiamando in parte le atmosfere di Kashmir dei Led Zeppelin.
Ascoltando le dieci composizioni del disco tornano a galla, qua e là, questa o quella melodia già sentita nei precedenti album, segno che la vena compositiva di Sammet non è propriamente al top. La suite Savior In The Clockwork richiama, un po’ troppo da vicino, soluzioni musicali già adottate su “The Scarecrow” (provate a sostituire “savior in the clockwork” con “devil in the belfry”): dopo la consueta e breve introduzione orchestrale esplode la parte elettrica che ci rimanda alle atmosfere a cavallo tra hard rock e metal dei precedenti dischi, con uno stacco centrale che spezza la parte più sostenuta del brano. Uno stile cinematografico che richiama alla mente Meat Loaf e gli ultimi Nightwish.
Decisamente sottotono le ballad, con l’apice negativo per il pezzo-lancio Sleepwalking, pop-song da skip quasi immediato in cui Sammet duetta con Cloudy Young. Davvero troppo mielosa! Un po’ meglio What’s Left Of Me in cui possiamo godere della prestazione di Eric Martin (Mr. Big): buon lento ma che non può competere con quanto già fatto in passato.
Non male i brani veloci come Where Clock Hands Freeze: dopo l’inutile, ennesimo intro orchestrale, si scalda la superba voce di Michael “prezzemolo” Kiske (sì, quello che col metal non voleva più avere a che fare). Grande prestazione del singer tedesco che ancora una volta strappa applausi per uno degli highlight dell’album. Letteralmente ridimensionato il “gracchiante” Sammet. Non male anche Invoke The Machine, brano tirato a cavallo tra metal e hard rock, con la partecipazione di Ronnie Atkins dei Pretty Maids. In questo caso la mancanza di Lande si fa sentire: lo svedese, a mio avviso, avrebbe innalzato ulteriormente il valore di questa composizione. In Dweller In A Dream ritorna Kiske a illuminarci d’immenso con la sua voce. Il pezzo non è certo superlativo ma è proprio l’ex biondo degli Helloween il valore aggiunto. Grazie a Sammet per averlo fatto cantare nei pezzi più metallici.
Il disco si chiude con la seconda suite dell’album, The Great Mystery: pezzo particolare, continuo alternarsi di atmosfere più delicate con parti più dure. I diversi umori del pezzo non sembrano però amalgamarsi alla perfezione, dando a volte l’idea di trovarsi di fronte a più canzoni, piuttosto che ad un’unica composizione. Se non altro l’orchestra finalmente giustifica la sua presenza e le prestazioni di Bob Catley (Magnum), Joe Lynn Turner e Biff Byford (Saxon) sono davvero magistrali.
Insomma in “The Mystery Of Time” non ci sono bestialità, note fuori posto o aberrazioni musicali, ma non si raggiunge un livello compositivo d’eccellenza come le premesse lasciavano intendere. Bastano i numerosi ospiti, e soprattutto le loro preziose performance, a giustificare l’acquisto del disco? So già che molti, leggendo la lista dei guest, saranno pronti a gridare al miracolo. Dal canto mio preferisco ascoltare i vecchi lavori ed aspettare l’esibizione live che si prospetta davvero unica in ambito rock/metal.

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