Gli Uriah Heep furono una band capace di anticipare come poche altre. Nei seventies, mentre altri noti acts continuavano a cercare nell’hard-blues la chiave della longevità artistica, gli Uriah Heep già si proiettavano verso un suono più prog, un po’ ampolloso forse, tipico dell’AOR che spopolerà di lì a pochi lustri.
Il successo non tarderà infatti ad arrivare, anche se sempre in toni sommessi, e mai prorompente come forse avrebbe dovuto essere e per altri fu.
Geniali menti del gruppo, Ken Hensley alle tastiere, David Byron alla voce e Mick Box alla chitarra, che con il loro talento resero immortali album come “Salisbury” e “Demons and Wizard”.
Nel 1998 una formazione ormai totalmente rimaneggiata diede vita al comunque convincente “Sonic Origami”, tacendo poi per ben 10 anni.
Ora la line-up risulta ancora più mutilata dopo l’abbandono anche del drummer Kerslake, e solo Mick Box ci ricorda chi furono gli Uriah Heep.
Ma per fortuna ce lo ricorda bene. L’attesa ovviamente era davvera alta, ma i fans sembrano essere stati trattati bene grazie ad un album di puro e classico hard-rock in pieno Heep-style.
L’iniziale “Wake the sleeper” sembra prendere alla lettera il proprio titolo, e ci dà davvero una bella scarica, che ci lascia ben sperare per il seguito.
In realtà dopo questa botta di rock i toni si smorzano un po’, ed ecco che viene fuori una manciata di brani di gran classe, con ottimi momenti solisti ed una incantevole prestazione vocale di Bernie Shaw.
Il prog sembra essere tornato un’influenza notevole per gli Uriah, ma in questo album c’è molto di più. C’è l’AOR ad esempio, con grandi aperture melodiche e refrain piuttosto orecchiabili, e c’è anche qualche rimando agli anni che furono con qualche bella iniezione di Hammond che fa tanto figlio dei fiori.
Pur non essendo un vero concept l’album è comunque incentrato su tematiche mistico-religiose, e quella che credo sia una divinità induista in meditazione sulla copertina vuole ricordarcelo.
Anche l’aspetto tematico-immaginifico dunque resta sempre un aspetto importante, come la band ci ha abituato.
Una pecca piuttosto notevole è la durata dell’album forse un po’ eccessiva, sicuramente dovuta al fatto che in dieci anni di materiale ne è stato scritto molto.
Una sintesi più accorta, qualche pacchianeria tipica degli Uriah Heep in meno, forse anche una produzione un po’ meno piatta, avrebbero fatto di questo album uno dei migliori prodotti hard-rock dell’anno. Quello che ci resta invece è una bella oretta di gran musica, suonata da gente che sà il fatto suo, pur mancando della genialità degli esordi.

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