Quello che è successo dopo il tanto discusso split dei Pantera, è stata una fase molto controversa, dove Phil Anselmo da una parte e i fratelli Abbott dall’altra hanno cercato in tutti i modi di trovare una nuova propria identità musicale. Se Vinnie Paul e il compianto Darrell hanno fondato i seppur buoni Damageplan, il singer ha partecipato a numerosi progetti e sono state inoltre moltissime le “ospitate” su dischi e concerti di amici di vecchia data. Ma ciò che ha caratterizzato la vita del frontman dal 2001 per altri tre anni circa, è stata la nascita dei Superjoint Ritual, un gruppo messo in piedi per rappresentare quella che Anselmo ritiene essere la sua vera idea di musica, o meglio per proporre i generi da lui ritenuti fondamentali e che ama di più. Tutto questo traspare anche dalle sue sporadiche dichiarazioni molto forti, nelle quali, oltre a molte frecciate sui suoi ex bandmates, ha sempre affermato di aver finalmente trovato la band definitiva, quella dove avrebbe sempre voluto essere, nella quale ha la massima libertà artistica ed espressiva, dove finalmente può sfogare ogni sua voglia nascosta. Certo, a leggere certe frasi può venire molta tristezza ripensando ai bellissimi anni 90 quando i Pantera mettevano a ferro e fuoco l’intero globo dimostrando una coesione tipica di pochissimi altri. Ma bisogna capire anche che dopo uno split così “scandaloso”, di certo gli animi riscaldati hanno caratterizzato sia la musica che le parole dei musicisti. Canzoni come “Fuck You” dei Damageplan, palesemente scagliata contro Anselmo, e “Personal Insult” dei “Joint” che fa l’inverso e si rivolge simpaticamente contro i due fratelli, parlano da sole. A corollario di tutto ciò c’è da aggiungere anche il periodo difficile attraversato da Philip, causa dei dolori alla schiena che finiranno solo un paio di anni dopo con una complessa operazione chirurgica.
Dopo questa parentesi complessa e lunga, ma necessaria per capire l’evoluzione artistica dei personaggi coinvolti, arriviamo ai nostri. Un supergruppo oserei dire, visto il coinvolgimento, tra gli altri, di Hank III al basso e del grande Jimmy Bower alla chitarra, entrambi negli EyeHateGod e il secondo anche batterista dei Down ed ex Crowbar. Una musica che palesemente si rifà a ciò che era stato composto dalle band madri, un mix letale di Pantera, hardcore e sludge che non fa prigionieri. Un primo disco, “Use Once And Destroy”, incentrato soprattutto su partiture prettamente hardcore, o almeno è questo genere che prevale sugli altri. Poi arriva il capolavoro, questo grandissimo opus discografico che risponde al nome di “A Lethal Dose Of American Hatred”. Mai titolo fu più azzeccato. Una furia ancestrale di raro coinvolgimento e rara bellezza. Una vera e propria dose letale di odio americano, come insegna il titolo. Dai solchi delle tracks trasudano l’indole sudista, lo spirito magico di New Orleans, ma anche un’aspetto più violento che ben si amalgama con il resto. Condisce il tutto un Anselmo “alcolico” come non mai, che esplode con rabbia nei momenti più tirati per poi involvere, lasciandosi malinconicamente cullare nei frangenti fangosi creati dall’attitudine malsana dello sludge.
La grande prestazione del cantante inoltre non si può non associarla con il fatto che Phil sta facendo quello che gli piace fare. I testi sono chiaramente solo opera sua, ha il potere di esprimere ciò che vuole, fuori dai denti, in your face, come da copione. Ma anche la musica qui è in parte composta da lui, e questo rappresenta un vero e proprio snodo nella crescita artistica del musicista, solo con i Down il nostro aveva raggiunto un’abilità compositiva a 360 gradi. In ambito estremo i Superjoint sono il suo primo progetto serio dov’è il principale fautore dei brani.
Parlando delle diverse tracks, rare volte mi è capitato di trovare cinque canzoni consecutive così d’impatto e così di qualità. Nell’ordine “Sickness”, “Waiting For The Turning Point”, “Dress Like A Target”, “The Destruction Of A Person” e “Personal Insult”. Ognuna con una propria personalità, ognuna con una propria identità, ma legate da un denominatore comune che è l’attitudine. Per non parlare dei restanti pezzi, che chiaramente svolgono il loro compito in maniera più che egregia.
Guardate il secondo dei due dvd ufficiali pubblicati, vedrete un vero e proprio massacro, in un club minuscolo, dove stage diving, body surfing e rapporto band-pubblico alla massima potenza fanno guizzare all’indietro la memoria, quando nei gloriosi primi anni ’80 l’hardcore soggiogava la scena musicale americana.
Ed è questa la più grande qualità dei Superjoint Ritual. Un ritorno al passato, una riscoperta degli antichi valori che negli ultimi anni sembrano essere letteralmente scomparsi. Stupisce il fatto che dei musicisti ormai affermati scelgano i piccoli club rispetto ad un’audience più ampia delle grandi arene e dei grandi palcoscenici. Ma è questo quello che rende questo disco così speciale.
Potrei risultare in errore privilegiando altri aspetti rispetto a quello prettamente musicale, ma quello che sto spiegando vuole solo dare l’idea di ciò che, almeno per il sottoscritto, ha rappresentato e rappresenta questa band. Vedere un frontman che, fra una pausa tra un pezzo ed un altro, invita i presenti a seguire il moshing di un ragazzo distintosi fra gli altri per aggressività e coinvolgimento, fa capire cosa vuol dire avere voglia di suonare. Voglia di fare quello che ti piace, con un’attitudine che pochi eletti possono affermare di possedere. I Superjoint sono tra questi. E per questo motivo meritano il massimo dei voti.