Due band prive di punti comuni significativi. Tali sono le formazioni che, a distanza di circa una decade, hanno dato alla luce, con lo stesso monicker ed una line-up per tre quarti invariata, dischi “antipodali” come ‘Amok’ e ‘The Funeral Album’.

Siamo a metà degli anni novanta, Finlandia. L’ignara e pressochè ignorata coppia Lopakka-Tenkula è reduce da due buoni dischi di canonico extreme metal nordeuropeo; nella testa ora solo la voglia di dimostrare che l’attenzione di un’etichetta come la Century Media non sia frutto del solo caso. I mezzi per provarci sono passionalità e rabbia genuine, il risultato è il “disco rosso”. Nove brani che creano la veria barriera tra i Sentenced che furono e quelli che, con un disamorato testamento discografico, avrebbero poi dovuto salutare le scene. Nulla lascia presagire, da qui a cinque anni, l’impazzare del fenomeno HIM, nessun elemento può far accostare i Sentenced ad un qualunque trend pseudo-depresso-goth, nè al patetico rincorrersi di false tematiche suicide. E invece…da qui in poi cambia singer, seguono tre grandi dischi e, con l’avvento del ventunesimo secolo, con millennium bug viene scongiurata anche la possibilità di evitare il declino culminato con un doloroso scioglimento.
Si è parlato di band non accomunabili, si è parlato di barriera musicale, poco si è detto sulle ragioni di tutto ciò benchè ogni cosa dipenda dalla genuinità già citata qualche riga sopra. I tre quarti d’ora di ‘Amok’ trasmettono la naturalezza di un disagio sentito, sciolto, “di presa”. Tutto avviene attraverso un’autentica evoluzione rispetto al passato. Metal estremo che, in maniera trasparente, si evolve ed imbastardisce senza il timore di dover scoprire qualche nervo più romantico ed emotivo. Il risultato è una sorta di death metal in cui, in maniera semplice ed incredibilmente lineare, sulla roca ugola del gracchiante Taneli Jarva sono imbastite emozionanti melodie, talvolta rubate ad un certo heavy statunitense. Una semplice forma di melodic death? Non solo, perchè qui c’è tanto altro. ‘Amok’ è un disco irruente, pieno, penetrante che, la depressione plastificata di brani come la recente “Excuse Me While I Kill Myself”, la distrugge a colpi di un calderone sanguigno e reale. Un metal, inteso nella sua accezione più ovvia, che oltre a coraggio mostra neuroni, oltre alle idee rende la capacità di saperle mettere insieme, oltre all’abbondanza di sentimenti negativi offre la giusta cattiveria nell’esprimerli. Un contesto, ficcante oltre che fascinoso, concreto oltre che lirico, che per alcun motivo avrebbe necessitato di accorgimenti di mestiere. Quei due ragazzi finlandesi non sarebbero stati dello stesso parere ed, incoraggiati da mode musicali in patria ed un singer dalla presenza troppo ingombrante in casa, di lì a poco avrebbero deciso di cavalcare l’inutile onda che li ha gradualmente travolti evitando che l’antipodo sopra si tramutasse in catastrofe. A noi piace ricordarli così.

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