A distanza di un anno ritornano sulle scene discografiche i tedeschi Primal Fear con i “sette sigilli”, il loro settimo album se consideriamo il loro mini Horroscope.
Il gruppo sembra non voler cambiare di una virgola il loro sound, impregnato di riff aggressivi, rapidi e violenti cambi di tempo e un cantato incisivo come pochi possono vantare, ad opera del grandissimo Ralf Scheepers.
Il “vocalist” è decisamente più efficace ed espressivo che in passato risultando positivamente più vario: passa dalla dolcezza alla violenza con naturalezza. Penso che “Seven Seals” sia il loro migliore prodotto di sempre, seppure privo di una qualsivoglia forma di originalità e personalità.
Aprono subito le danze, anche se sarebbe meglio dire “l’headbanging”, la veloce e sempliciotta “Demons & Angels, cui fa seguito la più grintosa “Rollercoaster”. Pessimo inizio (simil dance) in “Seven Seals”, che però prosegue più ispirata, con un malinconico Scheepers su di una tristissima melodia.
Bella e violenta invece, la ritmata “Evil Spell”, in cui il buon Ralf fa un po’ il verso a Peavy Wagner, dei loro connazionali Rage. Carina la dinamica “The Immortal Ones”, incentrata prevalentemente su di un furbo ritornello. “Diabolus” è un’altro brano lento melodico, che rubacchia un pochino a metà strada tra le ballate di Dickinson e dei Gamma Ray; piuttosto efficace nell’insieme (lo riascolto veramente spesso con piacere).
Altro brano ruffiano, al pari del già citato “The Immortal Ones” è “All For One”, sorretta da un discreto impatto sonoro delle chitarre e dall’ottima prova vocale dell’ex Gamma Ray. Il brano che però meglio rappresenta l’album è, secondo me, il brevissimo “Carniwar”, un vero concentrato di cattiveria. Piuttosto distante dal sound generale dell’album è invece “A Question Of Honour”, e che si rivela anche abbastanza sotto tono in svariati frangenti; se fosse stata più breve forse sarebbe risultata maggiormente incisiva.
Il compito di concludere questo lotto di dieci canzoni viene affidato al terzo lento, a titolo “In Memory”, che stilisticamnete pesca tranquillamente dal repertorio solistico di Dickinson. Non particolarmente esaltante per la verità.
In conclusione l’album è efficace quanto basta a farsi ascoltare molte volte senza stancare. Il gruppo ha ormai raggiunto quella maturità artistica con la quale scrivere brani ruffiani, ma senza scadere nel ridicolo, anche se, ad essere veramente critici, qualche scivolata c’è stata. Nel complesso è comunque un buon album. La “paura primitiva” è tornata tra noi e difficilmente ci lascerà.