“In10sity” si presenta subito con un doppio riferimento celebrativo al raggiunto traguardo dei dieci LP: il numero nel titolo e la copertina che riprende da vicino quella del debutto datato 1989.
Se in casa Pink Cream 69 c’è quindi aria di festeggiamenti, di sicuro la presente colonna sonora è all’altezza della situazione; questo nuovo album, successore di quel “Thunderdome” che nel 2004 spopolò un po’ in tutte le tradizionali classifiche di fine anno, è infatti un lavoro fresco, impetuoso ed entusiasta.
Il tempo di domandarsi se il genere proposto sia più class metal o più hard rock, che già i quasi 60 minuti del disco sono passati in un baleno, lasciando in eredità una serie di melodie contagiose in testa, e qualche goccia di sudore sulla fronte per il continuo saltellare sulla sedia.
L’entrata in formazione della seconda ascia Uwe Reitenauer ha contribuito a spostare le coordinate sonore ancora più marcatamente sulle chitarre, conservando comunque l’ormai tipico sound ampio e fragoroso (merito anche dell’eccellente produzione di Dennis Ward) degli ultimi lavori; “in10sity” è anche per questo un album particolarmente diretto, che piace fin dal primo ascolto, pur non mancando di momenti più elaborati apprezzabili con un ascolto prolungato.
In genere, quando indicare gli “highlights”, i migliori brani di un disco, presenta delle difficoltà, i casi sono due: o ci si trova di fronte ad una accurata trasposizione musicale della famosa nebbia in val padana, oppure si sta ascoltando un lavoro la cui omogeneità qualitativa si assesta fermamente su un livello più che buono.
E’ questo naturalmente il caso: se canzoni fenomenali come “I’m Not Afraid” (personale preferita), la positiva “A New Religion” (in grado di rasserenare l’umore più nero), o il diretto anthem “No Way Out” (per la quale dozzine di gruppi heavy/power pagherebbero oro), giusto per citarne tre, non spiccano in mezzo alle altre come biancaneve fra i sette nani, è perché il disco si presenta complessivamente privo di cali e sempre piacevole.
Buffe similitudini a parte, il discorso si ripropone anche per le prestazioni individuali: impossibile sottolineare la prova del sempre bravo Readman, sicuro e convincente, senza poi nominare anche le brillanti chitarre di Koffler o la tonante sezione ritmica degli altri due membri fondatori, Ward e Zafiriou.
Potrei continuare parlando ad esempio dell'”epica” opener “Children of the Dawn”, dell’irresistibile inno da arena “Wanna Hear You Rock” o di “My Darkest Hour” che è bonus track solo per dire, tanto è integrata nel contesto: ma non voglio togliervi la soddisfazione di ascoltare ed apprezzare da soli un album che ha tutte le carte in regola per avvicinare e bissare il successo del suo strepitoso predecessore.

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