Ci sono volte in cui vi vorreste trovare altrove a fare tutt’altro rispetto a quello che state realmente facendo? Beh per quello che mi riguarda questo e’ uno di quei momenti. Il perche’ e’ presto detto: il gruppo in esame in questa recensione e’ uno di quelli che fa parte del personalissimo gotha musicale per chi sta scrivendo, in questi casi gli stati d’animo che si cambiano in poco tempo sono talmente tanti da essere spesso ingestibili. Sono passato dalla frenesia di ascoltare il nuovo disco dei “miei” Molly Hatchet al doverlo rimettere su per dargli un’altra possibilita’ a distanza di qualche settimana anche a costo di posticipare questa recensione.
Come e’ andata penso lo intuirete visti i toni non propriamente benauguranti della precedente introduzione, infatti dopo l’ottimo “Kingdom Of XII” e il live “Locked And Loaded” (splendida scaletta ma con un suono decisamente inadatto a loro uscito fuori in sede di produzione) arriva forse uno dei primi passi falsi del gruppo americano. Paradossalmente in un periodo a loro decisamente favorevole dopo una tournee mondiale di gran successo e al suggello rappresentato dall’esibizione live durante il XXXIX Superbowl (evento che in America e’ probabilmente il piu’ seguito dell’anno) nonche’ alla partecipazione alla colonna sonora del film “Dukes Of Hazzard” (tratto dall’indimenticabile telefilm degli anni settanta ed ottanta da noi noto semplicemente come “Hazzard”).
Insomma i Molly Hatchet godono di ottima salute, dal vivo sono sempre in grado di rivaleggiare con tutti i migliori gruppi in circolazione ma, purtroppo, questo stato di grazia ha mancato di includere anche questa ultima loro fatica in studio, e dire che le premesse di ottima riuscita c’erano tutte, a partire dal ritorno (attesissimo) in formazione di Dave Hlubek, uno degli storici chitarristi dei Molly Hatchet. E invece mi trovo a recensire un disco che non vorrei fosse capitato proprio a me, con questo non voglio assolutamente stroncarlo del tutto o affermare che sia oribile anzi, e’ che da loro c’e’ da aspettarsi qualcos’altro, anche dopo piu’ di 25 anni di onorata carriera. Come tutti i gruppi fedeli a loro stessi (mi viene da pensare ai fratelli maggiori Lynyrd Skynyrd o, cambiando genere, agli AC/DC) che fanno della coerenza e del mantenimento dello stile della loro proposta il loro inconfondibile marchio di fabbrica, ci si aspetta quantomeno quella carica di energia pura che e’ il vero motore del southern rock combinazione eslosiva di country e rock duro che arriva direttamente all’anima senza passare per nessun altro posto.
Con “Warrior Of The Rainbow Bridge” questo non accade, e mai come in questa occasione mi duole fare una considerazione del genere, il disco scorre via fin troppo velocemente, c’e’ si qualche sussulto come l’opener “Son Of The South” o la coinvolgente “Roadhouse Boogie” ma sono episodi che non riescono da soli a tenere a galla un disco che mi e’ apparso sin dal primo ascolto (e senza cambiare con i molti ascolti successivi) troppo poco incisivo, troppo “normale” per essere griffato da uno dei maggiori nomi in ambito southern di sempre. Bocciati quindi? Beh no, non proprio, diciamo rimandati magari del resto un piccolo passo falso a questi grandi attori del mondo musicale lo si puo’ ben perdonare. Il mio augurio e’ che sia un semplice incidente di percorso e non un pericoloso campanello d’allarme per il futuro di queste glorie del rock sudista, dategli un ascolto e magari lo troverete piu’ attraente di quanto ve lo abbia descritto io, se siete dei fan poi… beh magari lo avrete gia’ preso quindi non posso aggiungere molto altro.
Aspetto ansiosamente i Molly Hatchet al loro prossimo disco sperando vivamente di non dover piu’ intraprendere una recensione cosi’ difficile come questa, alla prossima quindi. Permettetemi in chiusura pero’ di ricordare il grande Danny Joe Brow, storica ugola dei Molly Hatchet, purtroppo morto da poco tempo, RIP.

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