Iniziano a diventare “esperti del mestiere” questi Mennen, già apprezzati in passato per i loro precedenti lavori ed oggi tornati sugli scudi con questo Planet Black, album che porta avanti la notevole regolarità del gruppo olandese, che ci ha abituati ormai ad un disco ogni 2 anni precisi.
Questa volta però devono aver pensato molto anche alla qualità del disco, oltre che a restare nei tempi imposti. Ne risulta un album assolutamente piacevole di rock classico, come a dire il vero se ne vedono più pochini in giro. Joss Mennen è singer dotato di ugola non indifferente, voce sfruttata forse non moltissimo sui precedenti lavori e che anche qui non fa miracoli ma dimostra in alcuni tratti la sua adattabilità e ampiezza da far invidia a tanti gruppi blasonati.
Una produzione ottima crea poi le giuste atmosfere, inserendo qua e là arrangiamenti curati (dalle sirene della polizia di Power of the Bone ai cori) che rendono ancora più piacevoli i bravi, tra i quali è difficile scegliere il migliore o l’hit poichè realmente alta è la media generale.
La canzone d’apertura, che dona anche il nome al cd, è un elogio al singer, che prova subito le note alte in un intro quasi a cappella, prima che arrivi in supporto il buon Rerimassie, che sarà protagonista di diversi assoli di assoluto valore, a rendere questo primo brano subito diretto e complesso, con i quattro che sembrano scambiarsi il ruolo in primo piano uno con l’altro.
Un po’ meno epico e un po’ più rock il seguente “Can’t Get It Out Of My Life” dove a spiccare è il solo di chitarra prima della conclusione e il ritornello assolutamente orecchiabile, che ci trascina verso uno dei brani più particolari della intera uscita discografica. “Power To The Bone” in cui tra un assolo e l’altro è nuovamente il singer a fare la parte del leone, ben coaudivato da cori leggeri ma ben orchestrati, per un pezzo che strizza l’occhio a band quali i Cure e gli Europe. E proprio al grande Tempest pare avvicinarsi qui la voce di Joss.
Alex Jansen reclama e ottiene il giusto spazio in “Solitary Man”, dove il suo strumento sembra voler prendere il sopravvento sugli altri, andando a gareggiare con l’immancabile e puntuale assolo di chitarra. Un inizio alla “Zombie” dei Cramberries apre “Feel Put Aside”, che ci fa rifiatare per circa tre minuti, fino ad esplodere in aggressività per una conclusione molto anni ’90. “On Fire”, con i suoi cambi di ritmo ci porta verso la particolarissima “Green Elephants And Blue Clouds”, pezzo che sembra unire il un solo brano i migliori pregi di Queen e di U2, con cori che ricordano gli arrangiamenti della Regina e un sound che invece si avvicina al combo irlandese. Paragone forte? Forse, ma necessario per farvi capire la consistenza di questa band veramente in crescita esponenziale. E forse il punto più alto si ha nella splendida “Mister Father”. Una gemma di purissimo rock stile inizio anni ’90, diretta, orecchiabile eppure complessa, con cori a sovrapporsi creando atmosfere d’altri tempi.
Il disco prosegue sulla stessa falsariga, forse non raggiungendo più apici così alti, ma in modo da non permettere all’ascoltatore di staccare lo stereo.
Non sarà forse un gioiello di novità ,a questo album è un nuovo capitolo per un genere, quello del rock puro, che troppo spesso vive di contaminazioni che ne sviano i dettami più importanti, ma che grazie a questa ottima uscita torna a farsi apprezzare in tutta la sua magnificenza. Per gli amanti del genere e non solo un album da non perdere.

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