Sono ormai passati cinque lunghi anni da “Warriors of the world” e già allora si sentiva all’interno delle composizioni dei Manowar quello che si stava delineando come un lento ed inesorabile declino. Oggi con “Gods of war” la band americana vuole cercare di fare il passo più lungo della gamba cercando di creare una lunga quanto pomposa opera metal che alterna classici brani in chiave Manowar a composizioni sinfoniche dove tastiere, organi, corni, timpani e lunghissime quanto noiosissime narrazioni prendono il sopravvento sui pochi “veri” brani presenti nell’album. Il risultato è un cd prolisso composto per la maggior parte da canzoni strumentali che non hanno assolutamente nulla a che vedere con l’heavy metal cui i nostri ci avevano abituati. Fin qui nulla di male, direte voi, quante band oggigiorno fanno la stessa cosa? Il problema a mio avviso è un altro: anziché creare dei piccoli intermezzi strumentali, o in ogni modo dei lunghi brani, strumentali certamente ma con un minimo d’inventiva o di personalità (sì perché quelli di “Gods of war” sono noiosissimi), i Manowar esasperano l’ascoltatore portando la sua pazienza oltre ogni limite tanto che ad eccezione delle due, in sostanza uguali, “Army of the Dead”, brani quasi a cappella con un Eric Adams davvero evocativo dietro al microfono, le restanti canzoni per sola orchestra si rivelano di un tedio a dir poco mortale e sin dal primo ascolto si è portati a passare al brano successivo sperando di trovare la doppia cassa e le incredibili urla di Eric Adams.

Il disco si apre con due brani strumentali ovvero la lunga “Overture to the hymn of the immortal warriors”, che già la dice lunga sull’andamento del platter e con l’ormai conosciuta “The ascension”; finalmente, dopo quasi nove minuti di marcette, pomposi stacchi e narrazioni varie, esplode “King of kings” prima “vera”, ma già conosciuta, canzone di “Gods of war”. Poco male: sicuro che l’album decolli entro breve mi imbatto nell’epica “Army of the dead pt1”, ma ancora le chitarre stentano a diventare padrone assolute dell’album e a iniziare a dettare legge; la paura inizia a salire. Superato anche questo ostacolo, che si rivela in ogni modo interessante, è il momento di ascoltare, dopo un nuovo ed estenuante minuto di narrazione, “Sleipnir” che irrompe con tutta la sua potenza ed aggressività, rivelandosi come uno dei migliori pezzi di “Gods of war” grazie proprio ad un ritornello ruffiano ed orecchiabile. Si continua senza (stranamente) nessun intermezzo con “Loki, god of fire, ma la speranza di ascoltare un brano originale sparisce sin dalle sue prime battute grazie ad un riff copiato pedestremente da “Return of the warlord”; “Blood brothers” ci svela il lato “romantico” e malinconico dei Manowar grazie ad una ballata scontata che alterna una parte per solo piano e voce con la successiva controparte in chiave “metallica” che altro non fa che riprenderne il tema iniziale.
Tempo di tragedia epica e maestosa o tributo a Wagner e a tutti i compositori classici che ormai da secoli imperversano nella testa di Joey DeMaio e a sorpresa arrivano altri due brani orchestrali, “Overture To Odin” e The blood of Odin”: la prima riprende temi ormai già sentiti mille volte nelle composizioni strumentali dei Manowar, mentre la seconda ci concede una nuova narrazione sulla falsariga di “Warrior’s prayer”. Se ancora non siete andati a lamentarvi con gli dei del Valhalla o loro stessi non si sono ancora tagliati le vene per l’incredibile dose di pacchianità presente in questi brani, ci pensa la successiva e ormai già conosciuta “Sons of Odin” a tirarvi un pò su il morale grazie al suo incedere solenne e grandioso come solo i Manowar più ispirati sanno fare ma tempo pochi minuti e si ricade di nuovo nella noia più mortale con “Glory Majesty Unity” altro brano narrato che riporta nuovamente il morale sotto i tacchi. Si riparte poi con “Gods of war” di cui non starò a parlarvi dato che ormai tutti noi, fan dai Manowar, la conosciamo già molto bene, mentre il finale del disco è affidato nuovamente a parecchi minuti di musica sinfonica e strumentale ideali per terminare l’ascolto di un album così “vario” e “ispirato” che si chiude con una bonus track, “Die for metal” dal titolo e dalle liriche quanto mai kitsch.

Facciamo due conti: comprensivo della bonus track, “Gods of war” è composto da sedici brani, cinque dei quali sono già stati pubblicati della band. Rimangono quindi undici canzoni, di cui quattro vedono i nostri imbracciare i propri strumenti per regalarci canzoni inedite, anche se, si sa, l’originalità non è mai stata il loro forte e quindi ci si impiega davvero poco ad assimilarle, mentre i rimanenti pezzi si dividono, come già detto, tra sontuosi brani di musica sinfonica e narrazioni con tanto di effetti speciali ed ambientali in stile colonna sonora.
Un po’ poco per aver aspettato cinque anni.
I Manowar continuano a glorificare la loro battaglia contro il mondo e contro il “false metal” ma non è proprio questa la via che loro stessi stanno prendendo? Mi spiace essere così severo con una band che seguo dagli inizi e con cui ho iniziato ad ascoltare heavy metal ma ora come ora i Manowar sono solo l’ombra del loro glorioso passato. Inutile dire che per me è uno spreco assoluto regalare oltre venti euro a DeMaio e soci che dopo aver già preso abbastanza in giro tutti noi con i quattro ed identici “Hell on Earth” ora ci “regalano” quaranta minuti di musica sinfonica e “classica” (adottiamo questo termine, anche se così non è) e soltanto venti minuti di brani nuovi. Non ho nulla contro la classica, ma purtroppo non è questo il genere di musica che mi aspetto ascoltando un album dei Manowar.

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