E’ con grande emozione che mi appresto ad ascoltare il nuovo lavoro dei Labyrinth. Molte domande e molti pensieri scorrono nella mia mente… Chissà se questo disco sarà all’altezza dei suoi predecessori ?
Ero rimasto letteralmente travolto e rapito dalla freschezza, e dalla potenza di “Return to heaven denied” mentre “Sons of thunder” mi aveva lasciato con l’amaro in bocca, sia per la produzione pessima, sia per un cambio di direzione stilistica incentrato più su un power-prog che sul classico power cui ormai mi ero abituato.
Certo, è un gravoso compito dover recensire questo cd, a molti non piacerà, altri invece lo riterranno un gran disco; io sono tra questi ultimi.
Bastano poche note per spazzare via ogni sorta di dubbio.. Con un album intitolato in maniera azzeccatissima, che secondo me indica una rinascita, l’inizio di una nuova era, i Labyrinth ritornano in forma splendida, e lo fanno con un disco che non perde un colpo in tutta la sua durata e che non risente minimamente della mancanza di Olaf Thorsen membro dimissionario e fondatore del gruppo. I cinque ragazzi toscani ritornano alla ribalta con 10 pezzi di grande power metal, veloce e potente, la voce di Roberto Tiranti, a mio avviso uno dei migliori cantanti di tutta la scena italiana, risulta espressiva, ispirata, graffiante, acuta ma soprattutto capace di conferire un feeling che soli pochi riescono a trasmettere all’ascoltatore; Andrea Cantarelli macina riffs su riffs, talora power, a volte prog e addirittura thrash come capita in “Just soldiers (Stay down)” una delle canzoni più vicine al sound tipico della Bay Area americana; grande lavoro svolto da Andrea De Paoli che si conferma ancora una volta un tastierista capace di conferire al sound dei Labyrinth una sfumatura in più che rende proprio particolari le loro canzoni; assoli su assoli, Cantarelli fa un lavoro che definirei magistrale, basta con sweep e scale interminabili a cui il Thorsen ci aveva ormai abituati, ma soli studiati, ben definiti che si incastrano perfettamente con il lavoro svolto da De Paoli.
Si parte alla grande con “The Prophet”, un attimo di silenzio, una foglia che cade prima di una tempesta e poi si scatena un riff che colpisce in faccia più forte di un pugno; veloce, melodica e coinvolgente, dopo pochi ascolti ci si ritrova già a cantarla a squarciagola. Fantastico il momento dei soli, in cui la chitarra e la tastiera iniziano ad alternarsi in quella che sembra una gara per l’assolo più veloce! Senza nemmeno un attimo di tregua si prosegue con “Livin in a maze”, i Labyrinth tolgono il piede dall’acceleratore e rallentano un po’ l’andatura del pezzo, si passa da momenti veloci e tipicamente power a parti ancestrali e sognanti come nel bellissimo break centrale, introdotto da una sfuriata velocissima che ricorda i Labyrinth di “No Limits”, nel quale Cantarelli dà prova di essere un ottimo esecutore.
“This World” mostra una vena tipicamente progressive che ben si amalgama con il resto della canzone in pieno stile power… Le tastiere acquistano un suono molto vicino a quello dell’hammond, richiami ai Dream Theater , ai Queensryche e al prog anni settanta!
“Just soldier (stay down)” è la canzone che più si avvicina al sound thrash della Bay Area americana! Avete capito bene, le chitarre macinano riff thrash, il suono si indurisce, e accanto a ritmiche tipicamente power si affiancano plettrate rocciose e ritmiche devastanti come solo i mostri sacri del genere sanno fare.
Ed ecco arrivare finalmente uno dei momenti più belli ed intensi di tutto il cd. Con “Neverending rest”, si parte coi lenti, Roberto è ispiratissimo, e la sua voce è accompagnata dalle note del piano di De Paoli, sodalizio che si sposa magnificamente al quale si aggiungono poi tutti gli altri strumenti nel susseguirsi della canzone. Ma non è finita qui, non contenti i Labyrinth decidono di cambiare le carte in tavola e la canzone decolla, arriva un bellissimo assolo di chitarra/tastiera fino poi a tornare ai canoni standard della song.
Si riprende alla grande con “Terzinato” una delle canzoni che più si avvicinano ai pezzi di “Return to heaven denied”; la doppia cassa è maestra, le tastiere macinano riffs al fulmicotone… Solito break centrale, e poi si riparte di nuovo a mille; il suono è duro, massiccio, una vera mazzata! Con “Hand in hand” ci troviamo di fronte a una canzone con continui cambi di tempo, riff veloci, e arpeggi di chitarra, mentre “Slave to the night” è introdotta da un solo di chitarra molto orecchiabile, vi si alternano parti veloci a parti più lente ed ispirate fino poi ad arrivare nel solito e classico Labyrinth-ritornello, orecchiabile e melodico.
Ma è con “Synthetic Paradise” che arriva il momento più sperimentale di tutto il cd… Il pezzo è introdotto da una sorta di riff tipicamente disco cosa che non manca mai negli album dei cinque toscani.. Ma niente paura, dopo pochi attimi le tastiere lasciano spazio alle chitarre e si parte velocissimi, e una nuova canzone tipicamente Labyrinth torna a uscire dalla casse dello stereo!
Il disco si conclude con “When I will fly far”, che ricorda un po’ l’esperimento che avevano tentato con “Miles away”. Una chitarra acustica accompagna il duo voce/tastiera che come al solito nei pezzi lenti del gruppo è la carta vincente… Basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla voce sognante di Roberto, e dalle note scaturite dal resto degli strumenti della band per…volare lontano.
In conclusione i Labyrinth ritornano alla ribalta con un album che regge perfettamente il confronto con i suoi predecessori, è la perfetta fusione tra il power di “Return to heaven denied” e gli esperimenti prog tentati in “Sons of thunder”. La mancanza di Olaf Thorsen non si avverte minimamente, anzi affermerei che il songwriting dei ragazzi è migliorato tantissimo, e sono andati persi quegli episodi di assoluta banalità che forse erano propri del buon Olaf.
Se non l’avete ancora comprato correte subito dal vostro negozio di fiducia… Tremate, i Labyrinth sono tornati, non vedo l’ora di vederli dal vivo!