Dal 2006 ormai gli Helstar sono tornati al line-up quasi originale, con James Rivera e Larry Barragan nuovamente assieme. Ed è proprio la voce di Rivera a fare da padrona e a rendere veramente interessante il gruppo. Potente e chiara, assomiglia fortemente a quella di Rob Halford, così come il metallo che viene proposto in The King Of Hell è di stampo molto classico, reminiscente dei Judas Priest, con qualche accelerazione e atmosfera tipica invece del Power Metal.
La title track King Of Hell è subito un ottimo esempio di grinta e canto spiegato, che supera i sei minuti e propone un ritornello breve e deciso, quasi pomposo. Dopo pochi ascolti ve lo scoprite in testa e non potete fare a meno che cantare “Bow Down… to the King of Hell”, a voce alta, lasciando interdetto chi vi sta vicino.
Ci pensa poi The Plague Called Man ad arricchire il classic metal di doppia cassa e cori power, senza diventare però l’ennesima “cantilena veloce” dello stile power (mio giudizio personalissimo).
I testi di questa bella e armoniosa canzone parlano del male intrinseco nel genere umano, e questo tema ricorre un po’ in tutto l’album, il quale non vuole essere di critica sociale o politica, bensì, a detta dello stesso Rivera, punta ad analizzare il lato oscuro dell’essere umano, dal quale i problemi odierni di ogni nazione e società in realtà scaturiscono.
Segue una serie di ottime canzoni: Tormentor, epica e potente, accattivante ed immediata; When Empires Fall, che piace ma non spicca per originalità; Wicked Disposition, canzone molto cupa, che a mio avviso forse poteva essere ancora un po’ rallentata e cadenzata per enfatizzarne maggiormente il contenuto. Il testo analizza infatti in maniera esplicita il male insito nell’animo dell’uomo, i sensi di colpa, la questione peccato-dannazione-salvezza.
Si passa poi a Caress of the Dead, canzone che racconta un innamoramento necrofiliaco, abbastanza anonima a mio avviso, tuttavia fa buonissimo sfoggio di chitarra; Pain, altro brano veloce e incalzante ma non particolarmente originale; a sorprendere arriva però In My Darkness, stupenda per il cantato epico, l’atmosfera dark, intimista, e sopratutto grazie a un incipit acustico e lento che mette i brividi.
L’album chiude in bellezza con Garden of Temptation: quasi nove minuti di atmosfere mediorientali, chitarra acustica decadente e suoni in sottofondo arabeggianti, per passare poi a un classico metal che non arriva mai al ritornello, ce lo fa attendere fino alla fine, alternando e variando tempi e ritmi senza sosta – quasi alla Iron Maiden.
Insomma, un album che mi ha sorpreso per la qualità e professionalità, curato nei particolari di melodia e struttura del brano, di livello tecnico alto. Un album che non annoia, anzi, si presta ad essere ascoltato più volte, grazie a una formazione che vanta 25 anni di carriera, e ad una voce che ogni metallaro e in particolare ogni fan dei Judas Priest amerà.