Pennellata dopo pennellata, sfumatura dopo sfumatura, il pittore crea qualcosa di unico ed irripetibile, riuscendo a dar vita a disegni, donando loro emozione, personalità e vita, creando un vero e proprio mondo ideale (ed immaginario). Che sia un mondo felice o angoscioso e tetro non ha nessuna importanza, altro non è che la rappresentazione interna di chi cerca di rappresentarlo, disegnandolo.
Da qui nasce sicuramente l’idea base del nuovo album degli Ephel Duath, italiani (genovesi), i quali giungono al secondo capitolo discografico (dopo il grande Phormula) intitolato “The Painter’s Palette”. Di tempo ne è trascorso e, come tutti saprete, spesso il tempo rende una determinata cosa, viva o morta, differente dalla sua forma primordiale. Così distaccatosi dagli esordi black metal d’avanguardia, gli Ephel Duath partoriscono questo album che, ne sono convinto, farà parlare di sè per molti anni a partire da oggi. Gli Ephel Duath odierni sono diversi, difficili da inserire in un determinato contesto musicale, ma sono anche originali ed ostici, difficilmente apprezzabili appieno a primo ascolto.
Il loro sound, proprio come il dipinto di un pittore, non si ferma all’apparenza ma ha bisogno di essere copmpreso ed assimilato date le innumerevoli sfaccettature. Difficile sarebbe anche racchiudere gli Ephel Duath in un cerchio, dato che avrebbero sempre qualcosa con cui differenziarsi. Ascoltandoli però possono essere accostati a Cyinic, Atheist (quelli più atmosferici di “Elements”) il tutto contaminato da tonnellate di musica jazz e fusion, nonchè (come nel loro esordio) da musica elettronica. La tecnica compositiva è assurda e stranissima, quella strumentale ottima, le idee ci sono e sono anche tante…. Cosa manca? Assolutamente niente! Come un caleidoscopio di infinite dimensioni, la musica dei nostri genovesi va presa ed assimilata nella sua totalità.
Come una baionetta, la tromba (rigorosamente con sordina) presente nella iniziale “The Passage” trafiggerà le nostre membra rigirandosi irripetutamente nelle nostre carni. La voce di Davide Tolomei, a tratti calda e melodica, a tratti stridula e lacerante strazierà i nostri padiglioni auricolari. Cosa dire poi della raffinatezza del guitarwork, in perenne mutamento fra metal-riffs e soliste di natura jazzistica. Perenni cambi di tempo e di stile vengono offerti dal pressochè mostruoso lavoro della sezione ritmica.
Frastornato da questa miriade di note,di stili musicali, di suoni provenienti dal mio lettore mi rendo conto che questo disco può provocare seri disturbi mentali soprattutto perchè riesce ad assumere la forma del nostro stato d’animo. Insomma potrete classificarlo come “progetto a tavolino”, amarlo alla
follia o semplicemente giudicarlo originale e di classe, ma non potrete assolutamente ignorarlo.