Gli appassionati di hard rock si sono sempre divisi in due grandi tronconi nei confronti di David Lee Roth: quelli che hanno amato incondizionatamente tutte le sue bizzarrie (sceniche e non) pendenti letteralmente dalle sue labbra e ipnotizzati dalle sue smorfie e mosse e quelli che non lo hanno mai potuto soffrire per le stesse motivazioni, ritenute eccessive, offensive e fuori luogo. Quando dopo la separazione dai fratelli Van Halen uscì poi quel “Crazy From The Heat”, che preannunciava fin dalla copertina qualcosa di assolutamente diverso da quanto fatto fino ad allora, le cose non cambiarono assolutamente, tant’è che alcuni dei fan di Roth si dissero disgustati dalle scelte musicali del loro beniamino (riprendendo poi comunque ad inneggiare al suo nome per “Eat ’em And Smile” e “Skyscraper”).
Non mi meraviglia quindi più di tanto che l’ennesima fatica di David Lee Roth sia stata accolta ancora una volta con giudizi così diametralmente opposti, sarà anche forse la rabbia tutta maschile di ricordare (e vedere all’interno del booklet) il Nostro circondato da tale bendidio femminile?

“Diamond Dave” è costituito da 11 cover, più un brano originale (“Thug Pop”) e due intermezzi più o meno scherzosi (“Medicine Man” con Roth all’armonica e il demenziale “Act One”) e, lo ripeto per quei distratti che ancora non l’avessero capito, di hard rock alla Van Halen o alla “Eat ’em And Smile” non ne ha nemmeno l’ombra. Blues, Swing, Soul questi si, un’atmosfera divertita e spesso divertente, con un Diamond Dave davvero sugli scudi, gigione e spiazzante come al solito, a tratti sensuale, decisamente maturo.

L’album parte alla grande ed è davvero impossibile restare indifferenti alla scatenata coppia blues iniziale (come la seguente “Stay While The Night Is Young” dei londinesi Savoy Brown), ad una “Shoo Bop” (“Shu Ba Da Du Ma Ma Ma Ma” di Steve Miller) che canterete ancor prima che finisca, al soul ipertrascinante di “She’s Looking Good” (Wilson Pickett) o alla splendida versione di “Soul Kitchen” (Doors), uno dei brani che alla fine preferirò del disco. Si cambia quindi registro nella parte centrale, più calma e “calda”, dove trovano posto una rivisitazione dell’hendrixiana “If 6 Was 9” che non è riuscita a convincermi del tutto, una “That Beatles Tune (Tomorrow Never Knows)” anch’essa non troppo esaltante e una versione di “Let It All Hang Out” (The Hombres) a metà tra Lou Reed e Tom Waits di inizio carriera. La delirante “Act One” annuncia la ripresa dei toni allegri e festosi, ed infatti si finisce col botto, con una nuova versione di quello strepitoso “Ice Cream Man” apparso già nel primo disco dei Van Halen e con una divertente “Bad Habits” (Billy Fields) decisamente sulla scia di “Just a Gigolo/I Ain’t Got Nobody”.

Avrebbe senso domandarsi il perché di un disco come questo? Forse, se ad averlo fatto non fosse stato però quel pazzo scatenato che tutti conosciamo. O lo si ama o lo si odia, nessuna via di mezzo. Consigliato a chi appartiene al primo gruppo, caldamente poi a chi ama alla follia “Crazy From The Heat”.

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