Tedioso, prolisso ed eccessivamente lungo. Con questi soli tre aggettivi questa recensione potrebbe benissimo essere chiusa.

I Darkwater con l’esordio “Calling the earth to witness” ingombrano il mercato del prog-metal con un album che richiama attraverso ogni sua singola nota mostri sacri quali Dream Theater, Symphony X e Shadow Gallery. Le canzoni presenti su questo debutto sono fin troppo articolate e caratterizzate da troppa tecnica e da un eccessivo sfoggio di bravura. Molto spesso la band perde di vista il significato di canzone e si esibisce in sterili e inutili vagheggiamenti musicali che lasciano il tempo che trovano. I brani inoltre sono quasi tutti parecchio lunghi, con una durata compresa tra gli otto e i tredici minuti, cosa che non rende per niente piacevole lo scorrere dell’album, anzi. Il problema dei Darkwater, sebbene essi siano musicisti preparatissimi, sta nel fatto che molto spesso tendono a strafare andando a inserire troppe parti all’interno delle canzoni e la cosa dopo un po’ stanca portando l’ascoltatore a domandarsi quale brano si sta ascoltando. Un vero peccato perché esistono davvero ottimi spunti che lasciano a bocca aperta come capita con “In my dreams” dal sapore tipicamente “symphonyxiano” o ancora la splendida “The play” che, suddivisa in due parti, trascina in un ispirato vortice di melodic metal.

Un esordio a doppio taglio dunque: le idee ci sono e sono anche interessanti. Tuttavia i Darkwater rovinano tutto inserendo lunghissimi e intricatissimi momenti strumentali che prendono il sopravvento in ogni singolo brano. Da segnalare l’ottima prova tecnica del chitarrista Sigfriddson e del tastierista Holmberg che traggono le fila dell’intero gruppo per un connubio davvero niente male ma in cerca ancora di un songwriting più diretto e meno complicato e articolato. Rimandati.

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