La credibilità creatasi attorno ai Cave In è straordinariamente curiosa: non è raro che certa stampa musicale (nella maggior parte dei casi alternativa) dipinga i quattro di Boston come la nuova sensazione in ambito rock. Questo, naturalmente, dopo aver gettato fango su Coldplay, Radiohead e ancora prima U2. Il fulcro della questione è che i Cave In, il rock, non lo salveranno di certo (ammesso che debba essere salvato), perché sono fondamentalmente una band mediocre.
Nati come ensemble di harcore progressivo sulla scia di Voivod e Slayer, sono rimasti per anni nel sottobosco post-metal americano, assieme ai vari Converge, Botch e Coalesce. Un sottobosco, invero, che li avrebbe inghiottiti senza scampo (“Until Your Earth Stops”, la loro pubblicazione più nota in ambito estremo, è fin troppo autoreferenziale e cervellotica, distante anni luce da pietre miliari quali “Jane Doe” o “Venom”, per fare due esempi). Poi la svolta con “Jupiter”, hard-prog dalle tinte forti ed esistenziali, che li portò a divenire un (quasi) credibile incrocio tra Rush e Velvet Underground. “Jupiter” è forte di momenti riflessivi e diretti, è ispirato e suggestivo, ma non abbastanza lucente per l’aver creato così tante aspettative su “Antenna”. E difatti “Antenna” riporta a forza i Cave In sulla terra e dà una desolante prova di quanto possano essere mediocri.
Rock a 360°, melodie ruffiane ma mai memorabili, una sezione ritmica che conserva un piacevole retaggio hardcore, un’elettricità chitarristica non molto distante dal suono degli At The Drive In. Poi Stephen Brodsky, un discreto cantante, sempre ficcante (anche se spesso un po’ languido), ma che non ha certo l’enfasi interpretativa di un Bono o un Yorke “qualsiasi”. Questo non è né il luogo né il tempo per discutere sul fatto che gli U2 siano ormai diventati la parodia di sé stessi o se i Radiohead si ricordino ancora come si fa a comporre una canzone, ma i leader delle rispettive band hanno un carisma indiscutibile, una capacità comunicativa fuori dall’ordinario. Saranno antipatici o grotteschi, ma hanno il talento e il magnetismo che manca a Brodsky.
In “Antenna”, troppo spesso, si ha l’impressione di ascoltare una band che ha di certo delle buone idee, ma le accartoccia e le nasconde a favore di romanticismi (“Joy Opposites”) che sanno troppo degli U2 di Boy (casualità…) o di elegie simil-filosofiche (“Beautiful Son”) molto vicine al tono dimesso di “The Bends” (il lavoro più accessibile del gruppo di Thom Yorke).
Esploratori del rock dal tiro e dal groove affascinante, ma compositori e interpreti discutibili. Non basteranno le facili linee melodiche di “Anchor” o la vaga attitudine space di “Youth Overrided” a lanciare questo disco nell’empireo del rock.
“Antenna” è lo specchio più lucido delle lacune dei Cave In.

Vincenzo “Third Eye” Vaccarella

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