Pensando ai Birds Of Prey, e a quanto mi abbiano positivamente impressionato con il disco precedente, non posso non rinunciare a ringraziare la tanto cara Relapse, che con il suo bollino sulla cover del disco, che spiegava i gruppi ai quali potevano riferirsi i nostri, mi ha invogliato alla grande a dar loro una chance. E direi che ho fatto un gran bene, visto anche che la bontà di “Sulfur And Semen” è stata confermata alla grande dalla nuova fatica del combo americano, ovvero “The Hellpreacher”.
Non sono certo un gruppo facile da capire e ascoltare i Birds Of Prey, grazie (o a causa, dipende dal fatto che vi piacciano o no!) di una proposta complessa, a tratti alienante, che alterna sapientemente, e in alcuni frangenti oserei dire magistralmente, uno slugde metal sulfureo ed avvolgente alla violenza più spinta del death metal. La difficoltà nell’ascolto consta soprattutto nella “pesantezza” di alcune tracce, che però a chi è avvezzo a questo tipo di sonorità non potranno far altro che piacere.
Le citazioni nella musica dei Birds sono molte, ma non sono campate per aria. Nel senso che non viene lasciato nulla al caso, e soprattutto il risultato finale trae forza dalla forte impronta di personalità che i musicisti sono riusciti a donare ai brani. E’ così che ad esempio le influenze evidenti dei Crowbar nei frangenti più cupi e “riflessivi” vengono usate come ispirazione generale e non come mera scopiazzatura tipica di chi non sa dove sbattere la testa.
La tracklist di “The Hellpreacher” si divide praticamente in due parti. Da una si possono trovare brani più lenti e sulfurei, dall’altra alcuni più tirati e veloci. Già dalle prime due songs, “Momma” e “Juvie”, si può percepire questa differenza, con la prima che ringrazia del ruolo di opener che le è stato concesso sparando una serie di strofe e ritornelli indemoniati, e la seconda che per tutta risposta rallenta clamorosamente l’andamento dell’album lasciando comprendere il suo significato solamente alle sensazioni dell’ascoltatore. Bravi, non c’è che dire. Molto particolare anche “Alive Inside”, caratterizzata soprattutto da un’andatura quasi esclusivamente basata su di un roccioso mid-tempo, concedendosi raramente qualche escursione nella velocità.
Ultimo brano che mi sento obbligato a citare è la splendida “Warriors Of Mud… The Hellfighters, che comincia lanciata come una freccia impazzita, con un death a dir poco violento, per poi trasformarsi radicalmente nella seconda parte, assumendo nuovamente le tinte oscure e più cadenzate che ho menzionato precedentemente.
Un’altra cosa che colpisce in modo altamente positivo è la voce del frontman Ben Hogg, che ha un timbro vocale a dir poco particolare, che si differenzia da moltissimi altri “colleghi”, sputando acidità vocale in ogni momento.
Produzione abbastanza scarna, in linea con una musica senza fronzoli, che non necessita di chissà quali particolari orpelli per colpire nel segno.
Bravi ancora una volta dunque, continuano a non deludere e danno sempre quel qualcosa in più che molte altre buone band non riescono ad esprimere per sfondare.
L’ultima speranza che covo è quella di poterli finalmente apprezzare dal vivo, non dico da soli, perchè penso che non abbiano ancora lo status necessario per organizzare un tour da soli, ma magari assieme a qualche altro gruppo che come loro continua a farsi le ossa per emergere con una musica davvero sincera e piena di passione.

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